Angela Angiuli, Storie di un tempo minore, FaraEditore 2016
recensione di Vincenzo D'Alessio
La raccolta poetica di Angela Angiuli,
edita quest’anno da Fara, se verrà letta da occhi innocenti svelerà un mondo
solare, verde nel profondo, profumato di pane lievitato all’alba, pieno di
fragranze e colori.
Cose e sentimenti che tutti noi conosciamo?
Leggendo i versi delle due sezioni che
titolano “Il mattino dopo il sabato” e “Io con la mente scalza” scoprirete che
non è così. C’è un mondo parallelo
al mondo ostinato della corsa alla felicità ad ogni costo, al possesso come unico credo terreno; l’invito è a capire l’umano, le dita della
mano che scrivono, il cuore del sangue che pulsa nelle caverne
cerebrali, la trasfigurazione di fronte al dolore universale della perdita
delle persone amate.
Non basta la Fede cristiana a ricomporre
in versi “il vaso del tuo corpo” (pag. 9) “fratello e figlio dei miei giorni migliori” nella poeta,
né in noi che leggiamo. Si scatenano forze terribili, una falsa quiete che geme
nei vincoli della notte.
Bisogna accostarsi a questa raccolta
invertendo in primo luogo la scelta fatta dalla poeta: leggere dal fondo della
seconda parte per giungere all’epigrafe
che richiama alla nostra mente la poesia di Ugo FOSCOLO: “In morte del
fratello Giovanni”.
“Incontriamoci in una pagina bianca
/ scriviamo una storia diversa
/ incontriamoci dove possiamo
lasciarci dentro / ciò che non ci
conosce / apriamoci a un buco
nella tempesta, / al riparo dal mondo dei sani / dove nessuno si avventurerebbe.” (pag. 64)
L’invito è per noi, amico lettore,
proprio noi che al mattino aspettiamo al bar nell’odore del caffè, di riprendere il nostro
ruolo sociale, con lo squillo
impersonale dell’Iphone che ci
avvisa dei messaggi in arrivo, delle notizie dal mondo, dell’amica che invia la
sua foto su Facebook, noi che non scorgiamo la “tempesta” fino a quando non ci
siamo dentro e “il tempo minore” inizia a scorrere proprio come scrive la Nostra a pag. 9 : “(…)
stare in piedi testardi nella tempesta / tenere la faccia dei piedi nudi /
sopra la buccia della terra…” /.
La bellezza dei versi con i quali la
poeta si consola, ci consola, della perdita del fratello sospingono la
tragicità della morte, il pensiero quotidiano, l’inevitabilità della
sofferenza, oltre il freddo del sepolcro, oltre i passi veloci delle pie donne
al Sepolcro del Dio sceso in terra: “(…) il tuo Presente non è più lì / e l’Assenza, solo la tua Assenza mi
concede / di starti accanto – ora
senza incomprensione – / espressa
veramente e tu tutto comunione, / perché solo ora ho parole di altri sensi
/ per stare con te senza alcun
timore.” (pag. 14) .
I vivi che testimoniano l’assenza degli
affetti scomparsi. La parola
assurge ad essenza della memoria, a vento che moltiplica la forza
generatrice della nuova vita ogni primavera, che trasmette nei secoli: “ (…)
smarrimenti da raccontare / storie
minori da far ascoltare. / Lui ti
ha impastato la vita / aggiunto lievito, acqua, sale / tolto eccedenze / misurato quantità” (pag. 17) .
L’analogia con il “pane fonte di vita”,
transustanziazione nel segno cristiano, compare in diverse poesie della
presente raccolta di modo che l’energia dell’affetto, raggiunto dalla morte,
resti in chi scrive e in chi legge: “(…) perché siamo polline per fecondare /
farina per sporcarci le mani /
Pane da impastare.” (pag. 27).
Vorrei a questo punto soffermarmi sulle
figure retoriche utilizzate, sulla valenza della poetica della Nostra nella
Storia delle Letteratura Italiana contemporanea, sulla scelta del verso libero,
delle metafore, delle sineddoche, delle metonimie; scadrei forse nella
maldestra figura del critico che attende all’interpretazione versatile di
Angela Angiuli e della sua raccolta.
Per questa volta, sospinto dall’unica
barca che ho conosciuto nel traghettare il dolore della perdita di un grande
affetto famigliare, approderò con te, amico lettore, sulle rive dove il
naufragio diviene “dolce” e riprendo i versi dell’autrice: “(…) l’Esercizio
Divino è nel buco, / scavare, fare
spazio, allargare le sponde / e
vedere dentro Cose Nuove.” (pag. 43).
L’utero materno, la grotta delle
conoscenza, l’avello al quale si ritorna nel grembo della Grande Madre: “(…)
Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere
di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni
prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma
smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il
gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e
terribile, di occhi e di capelli nerissimi” (Giacomo Leopardi: “Dialogo della
Natura e di un Islandese”).
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