anna dalle crete, A mio padre, Edizioni Helicon 2014
recensione di AR
Il verso che abbiamo citato nel titolo è tratto dalla poesia
a p. 23 che inizia così: «La morte non è il sonno / non ha tratti familiari,
ghermisce / le persone più care, è fuori da ogni / norma, da ogni misura /
(…)». In effetti l’intera raccolta è una indagine di mente e viscere, in prosa
e in versi, sul mistero della morte, nello specifico quella dell’amatissimo
padre.
Abbiamo a che fare con un’opera di prose e versi dal tono
sapienziale, impregnata di quel biblico soffio/rùach che ha dato vita alla creatura plasmata dalla terra/adamah che è l’uomo. I versi sono per lo più in corsivo, a volte in
tondo quando il tono è, ci sembra, più filosofico-ermeneutico, interpretativo
dei ricordi e degli avvenimenti personali in relazione alle Scritture (a p. 25,
ad esempio, vengono riportarti diversi versetti di Isaia 40), al kèrigma
cristiano, ma anche alla condizione umana tout court: «Sentivo davvero che era
ormai troppo tardi. / (…) / Non mi restava che accompagnarti / per l’ultimo
tratto, tropo breve.» (p. 26); «Volevi forse dirmi / (…) / che i morti stanno
in modo non visibile / tra noi? / Sì, io lo so che ci sei, / anche se fa male
non vederti, / non poter stringere la mano…» (p. 63); «E quando le labbra non
si schiudono, / (…) / … tu, amato, accogli la voce / piccola della mia minuta /
le sillabe storte che il sangue / suscita all’eco dell’alta tua voce» (p. 83,
sono i versi che chiudono il libro già rivolti
a un altro Padre, quello celeste del quale il padre terreno è figura).
Non a caso in Prefazione Neuro Bonifazi parla di «poesia
“teologica”» (p. 5), di un’opera che «mostra un aspetto di unione trasfigurata,
per la complicità della terra col cielo, del tempo con l’eternità, della vita
con la morte» (p. 6). E nella Introduzione Loretta Iannascoli fa riferimento
anche alla dimensione orante e partecipativa di questo libro che si apre alla
«possibilità di andare oltre la sofferenza, di trascenderla, ed è comunicazione
che ci pone al disopra del nostro dolore e, scrive Hölderlin, “Chi si pone al
di sopra del proprio dolore si innalza”» (p. 16), è un testo che esprime
l’amore «che nasce e permette la relazione interpersonale» (p. 17).
L’esergo scelto da anna dalle crete è il
suggestivo versetto 20 del Salmo 76/77: Sul
mare passava la tua via, / i tuoi sentieri sulle grandi acque / e le tue orme
rimasero invisibili. Una implicita domanda/preghiera a Dio di cui si
riconosce la presenza e al contempo l’intangibilità, l’invisibilità se non
addirittura l’assenza. È un “nascondimento” ai sensi e alla ragione
strettamente connesso con tutta la problematica della teodicea, che cerca di
dare risposte alla vexata quaestio
della presenza del male nell’uomo (il c.d. peccato originale) e nel mondo naturale, con
i suo cataclismi (terremoti, inondazioni, ecc.) che non sembrano tener proprio
conto degli uomini e di altre forme di vita.
La struttura metrica delle poesie (con l’eccezione di quella
a p. 82, Mi convoca a cena, in
senari) è libera, c’è un ritmo franto, spezzato, sorretto da assonanze e
allitterazioni; la forma sintattica è particolarmente complessa, sia per un
abile uso degli enjambement, sia per l’ambiguità funzionale di alcune parole
focali e l’accostamento spiazzante (ad es. «l’upupa
sbizzarrisce» a p. 75) – assolutamente poetico e ricco di suggestioni
evocative – di aree semantiche lontane: «L’amore.
– La terra non è che un grande / cimitero, e lo sarà da ultimo / a maggior
ragione. Ma pullulante / scintille d’amorosi sensi.» (p. 23); «(…) si stacca con te / di noi ogni fibra.
Si resta sospesi / e sotto è vuoto. Non ci resta / che l’alto. Null’altro.
Nausea / da vuoto e lo spazio alto.» (p. 29); «Un silenzio si dilata / stamani che squarcia dentro» (p. 34).
Oltre ai molteplici riferimenti biblici, A mio padre è anche un omaggio a
importanti figure del Novecento come Cristina Campo, Agostino Venanzio Reali,
Margherita Guidacci, Montale, Luzi e tanti altri poeti e poetesse di cui anna dalle crete si è
nutrita e che, nel caso di Reali, ha contribuito in modo essenziale a
riscoprire e a far conoscere; abbiamo colto, ad esempio, un riferimento
“all’umile radicchio” del poeta cappuccino nella poesia a p. 36: «(…) Solo del radicchio / il fiore affonda
le radici, / l’azzurro accende più intenso il mattino, / più profondo lo sguardo – / di
mio padre – nella miriade di occhi / di turchino sono occhi di padre».
A p. 39 l’autrice
affronta, in prosa, il tema della paternità/figliolanza anche con riferimento
al sacrificio di Cristo che la
tradizione teologica attribuisce alla volontà del Padre: «Un padre non
tradisce il figlio. Il figlio può tradire il padre, come me quel giorno nel pensiero,
perché ho raffrontato la sua età
[di un defunto, giovane, per il quale
si celebrava nell'episodio riportato alle pp. 37 e 39 che ha generato il testo
di Affezione siderea] alla
tua e
altre strane idee mi sono affiorate alla mente che non si possono trascrivere
(…) perché temo anche i pensieri producano effetti di irradiazione (…)». E a p.
42 si chiede: «Ma come può un padre volere sacrificare un figlio? Nulla di
quanto la Scrittura tramanda accade a caso. (…) Con il sacrificio perfetto,
quello che il Figlio porta a compimento condividendo la volontà del Padre, è
Dio che prova all’uomo il proprio amore per l’umanità tutta». Riflettendo poi
sul peccato originale, anna dalle
crete afferma (p. 45): «il peccato non è che cedimento a un’illusione» e
più avanti (p. 74) ci ricorda che siamo salvati per grazia, per amore gratuito,
e non per gli sforzi della nostra mente o della nostra volontà: «L’amore si
lascia intendere dai sapienti e dagli stolti ed è capace di invertire stoltezza
e sapienza. La scienza può condurre a Dio ma solo se si lascia guidare dalla
fede, perché la mente da sola non raggiunge il cielo». E un atto di fede è la
poesia Proposito di mai dire “io” a
p. 81 di cui proponiamo gli ultimi versi: «nell’Io Sono eterno / presente che
suona “io” / sono la persona che sono // e nulla, io sola» – una dichiarazione
splendida dove le figure retoriche si accumulano (ossimori come eterno/presente, sono/nulla; parole che
si riecheggiano nel suono e nel senso sono/suono/persona;
l’ambiguità sintattica di eterno che
può fungere da solo da predicato oppure fungere da aggettivo di presente; e
ancora l’io che è particola dell’Io
Sono, del Dio che si rivela con questo nome a Mosè nel roveto, cfr. Es 3,14).
Non possiamo non ricordare, chiudendo questa parziale lettura di un’opera così
prorompente di una energia salmica, così attenta alle grandi domande dell’uomo,
così ardimentosa da “chiedere
conto” al Padre del sacrificio del Figlio e così fiduciosa nella possibilità di
una ricomposizione in Lui di tutte le nostre fragilità e fratture, di tutti i
nostri dubbi più angoscianti, perché Lui si fa eucaristia: «Mi dice ti amo / mi
convoca a cena» (p. 82); non possiamo non ricordare queste parole di Romano
Guardini: «Io non sono un “caso” fra tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono
soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’essenza
universale, ma un’essenza che ha l’impronta dell’unicità: porto un nome. Questo
nome l’ho da Dio. Sono nel mondo ma non mi risolvo in esso. (…) Perciò io posso
conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo
ricavandolo di là dove è custodito, cioè da Dio. (…) Ciò trova la sua piena
espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio
(…)» (cfr. Id., La coscienza,
Morcelliana 1933, 20094, p. 47). Non è forse un caso che il nome
dell’autrice, Anna, significhi in ebraico Grazia, cioè nata per grazia di Dio.
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