mercoledì 13 agosto 2014

Su E’ cino, la gran bòta, la s-ciuptèda di Gianfranco Miro Gori


recensione di Narda Fattori



Di Gori avevo apprezzato altre scritture in dialetto, lingua appresa nei bar, quindi non materna per lui, ma già sociale e socializzata, e ho avvertito che la padroneggiava, la qual cosa significa che il pensiero si forma in dialetto e viene prima, non segue poi una costruzione linguistica in italiano e poi tradotta. Fonemi, sintassi, espressioni significanti hanno matrici diverse e quando viene compiuta questa disonesta operazione, anche una poco edotta come me, lo avverte.
Il dialetto, almeno il dialetto romagnolo, ha pochi verbi, rari aggettivi, nominazione parca; non è dunque adatto a parlare di sentimenti; vuole comunicare, è lingua sociale.
La competenza di Gori sul cinema non è messa in discussione, ma il libro affronta e
cino non sotto l’aspetto tecnico, o evolutivo o come fenomeno sociologico. Per meglio dire, la sua è una sociologia famigliare, della nonna, della madre, di lui stesso bambino.
Il cinema si faceva una lettura del mondo e delle storie diversamente da quelle reali; la stessa storia si poteva vedere infinite volte e ogni volta era nuova. La meraviglia davanti al mistero il cinema l’ha perduta con il chiacchiericcio televisivo e la pervasività globalizzante di internet.
E se la nonna si perde in un universo nuovo, ricreato, seduta sulle più o meno scomode sedie o poltrone della sala, la madre riscopriva il mondo della fantasia e dei sogni. Era un gran dono. Per non parlare poi dell’autore bambino che ricomponeva lo stesso film come un puzzle sempre diverso.
Devo confessare che ho letto questa parte del libro, che è la più corposa, con grande piacere e velocemente; come pochi libri la semplicità del dettato richiamava a realtà condivise, probabilmente. Ho subito anch’io la fascinazione del cinema e dei suoi riti come la presenza del/la venditrice di semi.
Ho stampata nella memoria un ritorno verso casa in Vespa, con mio padre e entrambi cercavamo di fischiettare il jingle de Il ponte sul fiume Kwai.
 

Assistere ad un film era sentirsi un po’ creatori, e questa connessione semantica lega la prima parte alla seconda: la gran bòta.
È la storia della creazione e dell’evoluzione in sedicesimi; la gran bòta è il Big Bang, l’origine del mondo a cui segue la vita nei mari, lo sviluppo della terraferma, il tempo dei “lucertoloni”, la caduta di un grande bolide, e così come storicamente ci viene detto. E l’uomo acquista il senso di proprietà, sulle femmine prima, poi su altra terra, altri animali , per il potere.
Sono poche poesie di lunghe e complete, un sunto di miliardi di anni. Peccato che i ragazzini non sappiano più il dialetto: troverebbero gradevole leggere questi versi, dove non ci si dilunga, non si teorizza, ma si tiene saldo il percorso.

Le tre ultime poesie ripercorrono con la voce dell’assassinato e dell’assassino la morte di Ruggero Pascoli. Nessun effetto drammatico, oggi diremmo pura verità storica. Emergono nel discorso in prima persona le caratteristiche psicologhe e sociali delle persone coinvolte e di quelle che restano nell’ombra.
Ho letto questo libro d’un fiato, lasciando con il segnalibro quello che stavo leggendo.
Mi è piaciuto questo stile, quasi tenero nella prima frazione, e poi scabro e sintetico delle altre due.
E gli argomenti… non erano così duttili.


Nessun commento: