di Vincenzo D'Alessio
La poetessa Maria Luisa RIPA è scomparsa dieci anni or sono dalla scena terrena lasciando opere poetiche, architettoniche, collaborazioni artistiche. Aveva trentasei anni. Irpina per nascita, aveva realizzato viaggi e nutriva un amore profondo per la bellezza della vita.
I versi che abbiamo scelto per il titolo sono ripresi dalla composizione dedicata alla poesia: «Le parole scorrono / nel silenzio / come scorre il sangue / nelle vene / danno vita a versi che si stemperano / in poesia / e la poesia, profondo moto dell’anima, / diventa / la barca che ci porta su altre rive / e verso la speranza della vita». La sua prematura dipartita è stata una via crucis dolorosa: vinta dai mali che uccidono ogni giorno migliaia di esseri umani, di ogni età. Eppure non ha smesso, neanche per un momento, di amare la vita.
La raccolta postuma, di poesie e disegni, reca il titolo: Parole dal silenzio (Delta3 edizioni, 2003) e contiene una energia immensa capace di scaldare la fatica che il dolore semina in mezzo a noi uomini. Ascoltiamo la sua voce: «(…) non serve imprecare / “perché proprio a me” / Siamo parte dell’umanità dolente / Siamo parte del mondo che gira / Siamo parte del dolore cosmico / Siamo parte di Dio / … e Dio ci tende la mano / ci soffia la speranza nel cuore / finché il corpo si assopisce / e lo spirito emerge / oltre la vita…» (31 luglio 2003 ore 4,55).
C’è in questi stupendi versi tutta la fede in Dio, cristiano, buddista, cosmico. C’è l’ultima divinità che lascia i sepolcri, la Speranza, che è una Virtù. C’è la consapevole identità di appartenere alle formiche silenziose che lavorano per sopravvivere: noi, uomini. C’è la visione michelangiolesca della “Cappella Sistina” dove Dio tende la mano all’uomo e soffia nella materia del corpo la Speranza: olio per lo Spirito che alla fine lascia le membra per tornare nel Cosmo. C’è la consapevole appartenenza all’Umanità che assalita dall’indicibile dolore della Morte esclama: “perché proprio a me!”
I versi di Maria Luisa sono un fardello pesante. Poche metafore. Molta fiducia nella parola che come fiume carsico affiora alla luce dopo il lungo percorso sotterraneo. Il verso è “la barca” che traghetta lo spirito della poetessa oltre le terre dei morti. La scorgiamo bella, nel suo vestito dai mille colori, affacciarsi ai nostri occhi attraverso la fragilità dell’ampolla dove sono racchiuse lacrime e parole: “(…) Fa’ che il tuo grido / Sia ascoltato dal tuo silenzio / E dall’idea che hai del pianto./ (…) Seduto sulla soglia del tuo esistere / Aspetta / E perdona il tuo dolore.” (4 agosto 2003).
Sono trascorsi soltanto dieci anni dalla sua comparsa ma la sua voce è limpida, colorata, appassionata e la vita in lei detta note e sentimenti che vanno al di là del perimetro dell’ospedale dove vengono collocati coloro che la società odierna definisce “malati terminali”. La vita di ogni essere vivente su questo azzurro pianeta ha un termine naturale. La grandezza non sta nel possedere potere politico o economico. L’Eternità ha il prezzo del servizio prestato con sincera umiltà agli altri, proprio come fa la parola in poesia. Lo indicano i versi di un’altra grande voce poetica italiana, Giosuè CARDUCCI, nella poesia Funere Mersit Acerbo: «(…) E arriso pur di vision leggiadre / L’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole / Vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l’adre / Sedi accoglilo tu, che al dolce sole / Ei volge il capo ed a chiamar la madre.»
Così, io vidi, la madre Poesia abbracciare il sepolcro della Nostra, come amata figlia.
Agosto, 2013
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