Scrivendo a Nettore Neri (poeta
nato nel 1883 a Barbiano, in provincia di Ravenna, vissuto per lunghi anni a
Imola, formatosi all'alba del Novecento nella Bologna di Carducci, Pascoli,
Serra, Campana, per poi trasferirsi a Vignola per il suo lavoro di pretore),
Pasolini, attento ed amoroso antologista della poesia dialettale, dopo averlo
annoverato, nel 1952, in una serie di poeti «aristocraticamente locali», in una
lettera diceva di apprezzare, nei versi di lui, soprattutto una certa
inflessione «agra, in punta di pronuncia, così sgolata in piena ma pudica
felicità sensuale».
Evidentemente, anche i versi di
Neri, umili, rari, defilati, provinciali, ma proprio per questo preziosi,
avevano il potere di sollecitare e far simpateticamente risonare la Musa di
colui che aveva cantato a sua volta, dai versi in friulano alle Ceneri di
Gramsci, l'«estetica passione», la «stupenda, adusta sensualità / quasi
alessandrina», insomma l'attaccamento istintivo, originario (eppure in certo
modo compiaciuto, edonistico, intellettualizzato, e perciò quasi decadente),
alla vita, alla natura, alla voluttà, che nessuno schema ideologico, nessuna
astratta categoria concettuale e politica erano in grado di reprimere.
Accostamento, certo, ardito.
Eppure, già un lettore di rilievo come Aldo Spallicci, nella prefazione ad Arsoj, una
raccolta del 1939, indugiava, con accenti fra dannunziani e serriani, sui
silenzi, le esitazioni, le sospensioni della linea melodica, sulle «pause per
il respiro» che sono «i chiaroscuri e le ombre che danno maggior risalto al tuo
canto». Poi il silenzio viene «sopraffatto da altre voci: sono le cose che
parlano». Come in Pascoli agli occhi di Serra, la poesia è nelle cose, e dura
anche nel silenzio e dopo di esso, «come un'eco d'infinita tacita melodia». «È
caduta la neve nella notte e gli alberi e le case la guardano con volti di
stupore». Il paesaggio, lo scenario naturale, gli strumenti umani, tutto, con
una sorta di simbolismo semplificato, ridotto ai tratti essenziali, diviene
specchio e segno di uno stato emotivo; la natura è personificata e umanizzata,
nel suo parlante silenzio, nella sua significante immobilità.
Questo procedimento simbolico fa
riscontro, come notava un altro prefatore d'eccezione, Antonio Baldini, nel
1937, ad una sorta di contentezza dell'essere nel mondo, della pura e nuda e
vita, quale avvertiva, pur se in modo ben più chiaroscurale, sfumato, sofferto,
amaramente ironico ed ambiguo, il Serra lettore di Paul Fort («Io sono
contento, oggi» ‒ eco del «Je suis content» del
poeta francese pago dello spettacolo naturale con i suoi mille sguardi, il suo
coro di suoni e profumi, i suoi specchi limpidi e molteplici).
Il nome del rondista e
classicista Baldini non capita a caso. Vi è, negli schizzi e nei bozzetti
naturalistici, ma anche delicatamente introspettivi e maliziosamente e
finemente sensuali, di Neri, qualcosa di classico, una misura fine, pacata,
equilibrata, che fa pensare quasi agli idilli alessandrini, alla sorridente, ma
a volte anche esilmente melanconica, armonia teocritea. Proprio per questo le
malinconie del poeta non «lasciano margini neri», non si espandono, non si
dilatano, non debordano: contenute dalla forma, dall'equilibrio, dalla misura
del bozzetto, della miniatura, dell'idillio, non possono divenire una completa,
coesa ma monocorde, visione del mondo. Anche la melanconia, l'elegia, la
lacrima sono cristallizzate e chiuse nella forma armoniosamente e squisitamente
compiuta.
Eppure, fin dai suoi finora
dimenticati esordi in italiano, affidati alle colonne della «Cronaca Imolese» (foglio
d'ispirazione socialista cui collaboravano anche Luigi Orsini e Carlo
Zangarini, il futuro, esotico librettista pucciniano, che dalle colonne della
rivista, nel dicembre del 1901, auspicava
che un giorno qualcuno perlustrasse e mettesse in evidenza lo spazio culturale
della provincia, «insegnasse all'Italia l'alfabeto misterioso delle sue
province»), la poesia di Neri ha, come quella di tutti i poeti di un qualche
valore e significato, una sua complessità, una sua apertura, una sua tensione
verso l'oltre e il mistero. Poesia fatta di luci, voci, visioni, “occasioni”,
sollecitazioni sensoriali e sensuali, quella di Neri sembra, in pari tempo,
essere mossa e sorretta da un'onda declinante, da una sorta di moto o di clivo
autunnali, discendenti, cedui, quasi come nella musica, modalmente e
ritmicamente esitante, fluttuante, sospesa, di un Debussy o di un Satie.
Non c'è parola o canto che non
digradi e declini verso lo spegnimento e il silenzio, né colore che non sia
venato, orlato o intriso d'ombra, né profumo che non si diradi ed assottigli
fin quasi a disperdersi nel puro vuoto, e a non lasciare di sé che la memoria e
la traccia, gravide di echi e di ricordi.
In questa sensualità venata di
caducità, in questa corposa e tattile concretezza immersa però, quasi come in
De Chirico o nel Morandi metafisico, in un'atmosfera interrogativa
d'indecidibilità, d'attesa, di simbolo accennato, posto, e non risolto, è la
cifra espressiva essenziale e la visione del mondo dominante del poeta.
La quale, stilisticamente, trova
coerente espressione in un vernacolo fondamentalmente ravennate, dalle sonorità
distese, luminose, dai lunghi indugi quantitativi, ma, nel contempo, da una
concretezza corposa, e talora quasi aspra ed espressionistica, della
denominazione e dell'aggettivazione. Accanto alla concisione, alla nettezza,
all'energia che la letteratura romagnola sembra avere ereditato dalla sempre
presente lezione della Scuola Classica ottocentesca, vi sono dunque, a tratti,
a far da contraltare e da controcanto, quella lenitas e quella mollities
già elogiate da Dante come tratti comuni, nella sua epoca, al romagnolo e al
bolognese.
Cum al starmess al bdóll 't
e' fond d' ste rè;
e cum la ciacra l'acqua tra
'm i sass!
L'è incora scur, mo u s' sent
che, pass a pass,
u s' desta e' mond intorn e
ch' u s' fa dè.
Al suono dolce e smussato delle
liquide e delle dentali sonore, che evoca lo stormire delle foglie e il tenue
fluire delle acque, si affianca e s'intreccia la trama fonosimbolica delle
rotanti, legate all'idea del buio e delle tenebre che ormai stanno dileguando
all'approssimarsi dell'alba.
In un'altra lirica,
pascolianamente, ciò che è vicino è insieme lontano, e oggetto della
percezione, o dell'intuizione e dell'evocazione, è ciò che si vede e si sente
non meno di ciò che invece si sottrae alla percezione immediata. Il poeta vede
e ascolta ciò che si vede ma anche ciò che non si vede. Il noto, il vicino, il
tangibile, l'immediato, paiono essere un ostacolo, una barriera o un confine
che si frappongono alla conoscenza dell'ignoto, ma nel contempo un tramite e
una traccia per arrivarvi, attraverso un passaggio o un superamento.
Sempar finida e mai fnida la
véja: in un verso reso più mobile vivo dalla libertà morfofonetica del
dialetto, che può affiancare la forma sincopata a quella intera, è sintetizzata
in modo efficace, semplice e diretto la natura del tempo che costantemente, in
ogni istante, sembra esaurire in sé la propria misura, eppure porsi come
immagine mobile dell'eternità, ombra, traccia o proiezione ridotta di un ordine
superiore ed infinito.
S'al bròcch di mandl i pton i
sguicciarà
e, un pô spurì, a e' sren i
ridarà.
'Al brocch di mandl i fiur i
ridrà pian,
pian, sott' un zil ëlt, gni
dè piò, e luntan.
Qui il riso delle gemme e dei
fiori è visivo e, metaforicamente, uditivo, di un udito interiore e affettivo,
come il dantesco «riso de l'universo»; mentre a Leopardi, e Pascoli, allude
l'apertura verso il lontano e l'ignoto, dilatati nello spazio, nel tempo, e
nell'anima, e ad un lirismo quasimodiano («Ed ecco sul tronco / si rompono
gemme: / un verde più nuovo dell'erba / che il cuore riposa») può rinviare la
rappresentazione istantanea e sintetica del ciclico perenne rinnovarsi e rivivere
della natura.
Eppure, questi piccoli idilli,
questi quadretti o miniature naturalistici ed emotivi (simili per certi versi
anche agli haikai giapponesi) lasciano un fondo, un'ombra, d'amarezza:
l'impressione fuggevole di una bellezza tenera e delicata, ma destinata a
svanire, e infine vana, intrisa dell'esile e splendida vanità dell'esistere.
Non a caso, il giardino antico,
come nei crepuscolari e nel D'Annunzio del Poema paradisiaco, è
inquietante, quasi böckliniana allegoria della mortalità, del progressivo
inesorabile frantumarsi dell'esistenza destinata alla dissoluzione.
I versi di Neri, in apparenza
così semplici, poveri, spogli, vanno letti e riletti interiormente, con gli
occhi del pensiero, fatti vibrare e risuonare nel vuoto profondo dell'anima.
Letti a voce alta, eppure senza voce: nella voce inudibile della coscienza,
come i versi pascoliani «che cantano forte e non fanno rumore».
Emerge, allora, malgrado il
carattere rude, secco, corposo, scarsamente melodico, poco incline all'indugio e
alla meditazione, del dialetto romagnolo ‒ affiora, in
certe vocali aperte, tenute, dilatate, come pedali armonici, in certe
consonanti sonore che vibrano indefinitamente, tese eppure ondulanti ‒
quella stessa remota e morbida matrice neolatina e romanza, simile a una madre
affettuosa e defunta, che Zanzotto sentiva nel friulano di Pasolini, e che
ancor meglio risalta nelle registrazioni commoventi dove è Pasolini stesso a
leggere i propri versi: «Jo i soj muàrt al ciant da li ciampanis. / Forèst, al
me dols svualà par il plan, / no ciapà pòura: jo i soj un spirt di amòur / che
al so país al torna di lontàn».
Nella parca scelta antologica
che segue, mi sono concesso qualche libertà per quanto concerne le traduzioni,
che cercano di restituire al poeta l'essenza della sua vena lirica attraverso
modi espressivi prossimi alla lirica pura in senso ermetico ed
anceschiano.
Cum al starmess al bdòll 't
e' fond d' ste rè;
e cum la ciacra l'acqua tra
m'i sass!
L'è incora scur, mo u s' sent
che, pass a pass,
u s' desta e' mond intorn e
ch'us fa dè...
Starmess al bdòll; e' canta
za i uséll;
la campagna l'è totta fróll e
préll:
la campagna l' è totta préll
e fróll;
s' la ponta al sflezna, ch'al
pê torz, al bdóll...
Come stormiscono le betulle in
fondo al rio
come bisbiglia l'acqua fra le
pietre.
È buio ancora, ma poco a poco
s'ode
destarsi il mondo intorno, e
farsi giorno.
Stormiscono le betulle; già
cantano gli uccelli;
brulica e freme tutta la
campagna.
Brulica e freme tutta la
campagna;
ardono torce in cima alle
betulle.
Al nott, al nott ed lona ech
bell andê,
pian pian, sol da par sé, pr
al strê dè mond;
e guardê, quéll ch' u s' vëd
e u n' s' vëd, intond,
e quéll, ch' u s' sent e u n'
s' sent, stê d'ascultê...
E' starmess una bdolla; e'
baja un can:
gnaquèl e' pêr avsen, mo l'è
luntan...
E' sghignazza 'na zvetta; un
lom s'apeja:
sempar finida e mai fnida la
véja...
Nelle notti di luna è dolce
andare
soli, in silenzio, per le vie
del mondo;
guardar ciò che si vede e non si
vede,
ascoltar ciò che s'ode e non si
ode.
Mormora una betulla; un cane
latra:
ciò che era vicino è già
lontano.
Sogghigna una civetta;
occhieggia un lume:
la via è sempre finita, e mai è
finita.
In ste zarden intìgh, mo
intìgh 'na massa,
u n' s' sent êt ch' udor d'
fonz e tuffegn d' moffa.
Un can, str' al foj cadùdi,
e' raspa e e' troffa;
'na vècia dal bròcch secchi
la ramassa.
Longh i viël, squës totti al
statuv d' zéss
al fnéss d' cadë, a bcon a
bcon, 't i pëzz...
Al fnéss d' cadë 't pézz, a
bcon par bcon...
E' can, cla vécia, mè e pu
piò incion!
In quest'antico antichissimo
giardino,
si spandono, acri, funghi e
muffa.
Una cane, tra le foglie, raspa e
fiuta;
una vecchia raccoglie rami
secchi.
Lungo i viali le statue di gesso
cadono una ad una, pezzo a
pezzo.
Cadono pezzo a pezzo, una ad
una.
Il cane, quella vecchia, io, e
nessuno.
Dla nëv di ëlbar ai bdël u n'
i n' è piò
e, nench pr al tèr, e' su
linzol l'è lis.
Incora un pô d' pazzenzia, e
a turnarò
a vdër e' mond cm' e' foss un
Paradis.
S'al bròcch di mandl i pton i
sguicciarà
e, un pô spurì, a e' sren i
ridarà.
S'al bròcch di mandl i fiur i
ridrà pian,
pian, sott' un zil ëlt, gni
dè piò, e luntan.
Non c'è più neve d'alberi sui
ceppi,
e anche sui campi il suo
lenzuolo è liso.
Breve ancora l'attesa, e tornerò
a rivedere il mondo come cielo.
Sui rami dei mandorli
occhieggeranno le gemme
e ancora un poco impaurite
rideranno al sereno.
Sui rami dei mandorli
rideranno piano i fiori
sotto un cielo ogni giorno
più lontano e più alto.
Nessun commento:
Posta un commento