venerdì 14 giugno 2013

VOCI E SILENZI DELLA NATURA IN NETTORE NERI




Scrivendo a Nettore Neri (poeta nato nel 1883 a Barbiano, in provincia di Ravenna, vissuto per lunghi anni a Imola, formatosi all'alba del Novecento nella Bologna di Carducci, Pascoli, Serra, Campana, per poi trasferirsi a Vignola per il suo lavoro di pretore), Pasolini, attento ed amoroso antologista della poesia dialettale, dopo averlo annoverato, nel 1952, in una serie di poeti «aristocraticamente locali», in una lettera diceva di apprezzare, nei versi di lui, soprattutto una certa inflessione «agra, in punta di pronuncia, così sgolata in piena ma pudica felicità sensuale».
Evidentemente, anche i versi di Neri, umili, rari, defilati, provinciali, ma proprio per questo preziosi, avevano il potere di sollecitare e far simpateticamente risonare la Musa di colui che aveva cantato a sua volta, dai versi in friulano alle Ceneri di Gramsci, l'«estetica passione», la «stupenda, adusta sensualità / quasi alessandrina», insomma l'attaccamento istintivo, originario (eppure in certo modo compiaciuto, edonistico, intellettualizzato, e perciò quasi decadente), alla vita, alla natura, alla voluttà, che nessuno schema ideologico, nessuna astratta categoria concettuale e politica erano in grado di reprimere.
Accostamento, certo, ardito. Eppure, già un lettore di rilievo come Aldo Spallicci,  nella prefazione ad Arsoj, una raccolta del 1939, indugiava, con accenti fra dannunziani e serriani, sui silenzi, le esitazioni, le sospensioni della linea melodica, sulle «pause per il respiro» che sono «i chiaroscuri e le ombre che danno maggior risalto al tuo canto». Poi il silenzio viene «sopraffatto da altre voci: sono le cose che parlano». Come in Pascoli agli occhi di Serra, la poesia è nelle cose, e dura anche nel silenzio e dopo di esso, «come un'eco d'infinita tacita melodia». «È caduta la neve nella notte e gli alberi e le case la guardano con volti di stupore». Il paesaggio, lo scenario naturale, gli strumenti umani, tutto, con una sorta di simbolismo semplificato, ridotto ai tratti essenziali, diviene specchio e segno di uno stato emotivo; la natura è personificata e umanizzata, nel suo parlante silenzio, nella sua significante immobilità.
Questo procedimento simbolico fa riscontro, come notava un altro prefatore d'eccezione, Antonio Baldini, nel 1937, ad una sorta di contentezza dell'essere nel mondo, della pura e nuda e vita, quale avvertiva, pur se in modo ben più chiaroscurale, sfumato, sofferto, amaramente ironico ed ambiguo, il Serra lettore di Paul Fort («Io sono contento, oggi» eco del «Je suis content» del poeta francese pago dello spettacolo naturale con i suoi mille sguardi, il suo coro di suoni e profumi, i suoi specchi limpidi e molteplici).
Il nome del rondista e classicista Baldini non capita a caso. Vi è, negli schizzi e nei bozzetti naturalistici, ma anche delicatamente introspettivi e maliziosamente e finemente sensuali, di Neri, qualcosa di classico, una misura fine, pacata, equilibrata, che fa pensare quasi agli idilli alessandrini, alla sorridente, ma a volte anche esilmente melanconica, armonia teocritea. Proprio per questo le malinconie del poeta non «lasciano margini neri», non si espandono, non si dilatano, non debordano: contenute dalla forma, dall'equilibrio, dalla misura del bozzetto, della miniatura, dell'idillio, non possono divenire una completa, coesa ma monocorde, visione del mondo. Anche la melanconia, l'elegia, la lacrima sono cristallizzate e chiuse nella forma armoniosamente e squisitamente compiuta.   
Eppure, fin dai suoi finora dimenticati esordi in italiano, affidati alle colonne della «Cronaca Imolese» (foglio d'ispirazione socialista cui collaboravano anche Luigi Orsini e Carlo Zangarini, il futuro, esotico librettista pucciniano, che dalle colonne della rivista, nel dicembre del 1901,  auspicava che un giorno qualcuno perlustrasse e mettesse in evidenza lo spazio culturale della provincia, «insegnasse all'Italia l'alfabeto misterioso delle sue province»), la poesia di Neri ha, come quella di tutti i poeti di un qualche valore e significato, una sua complessità, una sua apertura, una sua tensione verso l'oltre e il mistero. Poesia fatta di luci, voci, visioni, “occasioni”, sollecitazioni sensoriali e sensuali, quella di Neri sembra, in pari tempo, essere mossa e sorretta da un'onda declinante, da una sorta di moto o di clivo autunnali, discendenti, cedui, quasi come nella musica, modalmente e ritmicamente esitante, fluttuante, sospesa, di un Debussy o di un Satie.
Non c'è parola o canto che non digradi e declini verso lo spegnimento e il silenzio, né colore che non sia venato, orlato o intriso d'ombra, né profumo che non si diradi ed assottigli fin quasi a disperdersi nel puro vuoto, e a non lasciare di sé che la memoria e la traccia, gravide di echi e di ricordi.
In questa sensualità venata di caducità, in questa corposa e tattile concretezza immersa però, quasi come in De Chirico o nel Morandi metafisico, in un'atmosfera interrogativa d'indecidibilità, d'attesa, di simbolo accennato, posto, e non risolto, è la cifra espressiva essenziale e la visione del mondo dominante del poeta.
La quale, stilisticamente, trova coerente espressione in un vernacolo fondamentalmente ravennate, dalle sonorità distese, luminose, dai lunghi indugi quantitativi, ma, nel contempo, da una concretezza corposa, e talora quasi aspra ed espressionistica, della denominazione e dell'aggettivazione. Accanto alla concisione, alla nettezza, all'energia che la letteratura romagnola sembra avere ereditato dalla sempre presente lezione della Scuola Classica ottocentesca, vi sono dunque, a tratti, a far da contraltare e da controcanto, quella lenitas e quella mollities già elogiate da Dante come tratti comuni, nella sua epoca, al romagnolo e al bolognese.

Cum al starmess al bdóll 't e' fond d' ste rè;
e cum la ciacra l'acqua tra 'm i sass!
L'è incora scur, mo u s' sent che, pass a pass,
u s' desta e' mond intorn e ch' u s' fa dè.

Al suono dolce e smussato delle liquide e delle dentali sonore, che evoca lo stormire delle foglie e il tenue fluire delle acque, si affianca e s'intreccia la trama fonosimbolica delle rotanti, legate all'idea del buio e delle tenebre che ormai stanno dileguando all'approssimarsi dell'alba.
In un'altra lirica, pascolianamente, ciò che è vicino è insieme lontano, e oggetto della percezione, o dell'intuizione e dell'evocazione, è ciò che si vede e si sente non meno di ciò che invece si sottrae alla percezione immediata. Il poeta vede e ascolta ciò che si vede ma anche ciò che non si vede. Il noto, il vicino, il tangibile, l'immediato, paiono essere un ostacolo, una barriera o un confine che si frappongono alla conoscenza dell'ignoto, ma nel contempo un tramite e una traccia per arrivarvi, attraverso un passaggio o un superamento.
Sempar finida e mai fnida la véja: in un verso reso più mobile vivo dalla libertà morfofonetica del dialetto, che può affiancare la forma sincopata a quella intera, è sintetizzata in modo efficace, semplice e diretto la natura del tempo che costantemente, in ogni istante, sembra esaurire in sé la propria misura, eppure porsi come immagine mobile dell'eternità, ombra, traccia o proiezione ridotta di un ordine superiore ed infinito.    

S'al bròcch di mandl i pton i sguicciarà
e, un pô spurì, a e' sren i ridarà.

'Al brocch di mandl i fiur i ridrà pian,
pian, sott' un zil ëlt, gni dè piò, e luntan.

Qui il riso delle gemme e dei fiori è visivo e, metaforicamente, uditivo, di un udito interiore e affettivo, come il dantesco «riso de l'universo»; mentre a Leopardi, e Pascoli, allude l'apertura verso il lontano e l'ignoto, dilatati nello spazio, nel tempo, e nell'anima, e ad un lirismo quasimodiano («Ed ecco sul tronco / si rompono gemme: / un verde più nuovo dell'erba / che il cuore riposa») può rinviare la rappresentazione istantanea e sintetica del ciclico perenne rinnovarsi e rivivere della natura. 
Eppure, questi piccoli idilli, questi quadretti o miniature naturalistici ed emotivi (simili per certi versi anche agli haikai giapponesi) lasciano un fondo, un'ombra, d'amarezza: l'impressione fuggevole di una bellezza tenera e delicata, ma destinata a svanire, e infine vana, intrisa dell'esile e splendida vanità dell'esistere.
Non a caso, il giardino antico, come nei crepuscolari e nel D'Annunzio del Poema paradisiaco, è inquietante, quasi böckliniana allegoria della mortalità, del progressivo inesorabile frantumarsi dell'esistenza destinata alla dissoluzione.
I versi di Neri, in apparenza così semplici, poveri, spogli, vanno letti e riletti interiormente, con gli occhi del pensiero, fatti vibrare e risuonare nel vuoto profondo dell'anima. Letti a voce alta, eppure senza voce: nella voce inudibile della coscienza, come i versi pascoliani «che cantano forte e non fanno rumore».
Emerge, allora, malgrado il carattere rude, secco, corposo, scarsamente melodico, poco incline all'indugio e alla meditazione, del dialetto romagnolo affiora, in certe vocali aperte, tenute, dilatate, come pedali armonici, in certe consonanti sonore che vibrano indefinitamente, tese eppure ondulanti ‒ quella stessa remota e morbida matrice neolatina e romanza, simile a una madre affettuosa e defunta, che Zanzotto sentiva nel friulano di Pasolini, e che ancor meglio risalta nelle registrazioni commoventi dove è Pasolini stesso a leggere i propri versi: «Jo i soj muàrt al ciant da li ciampanis. / Forèst, al me dols svualà par il plan, / no ciapà pòura: jo i soj un spirt di amòur / che al so país al torna di lontàn».  


                                               



Nella parca scelta antologica che segue, mi sono concesso qualche libertà per quanto concerne le traduzioni, che cercano di restituire al poeta l'essenza della sua vena lirica attraverso modi espressivi prossimi alla lirica pura in senso ermetico ed anceschiano. 


Cum al starmess al bdòll 't e' fond d' ste rè;
e cum la ciacra l'acqua tra m'i sass!
L'è incora scur, mo u s' sent che, pass a pass,
u s' desta e' mond intorn e ch'us fa dè...

Starmess al bdòll; e' canta za i uséll;
la campagna l'è totta fróll e préll:

la campagna l' è totta préll e fróll;
s' la ponta al sflezna, ch'al pê torz, al bdóll...


Come stormiscono le betulle in fondo al rio
come bisbiglia l'acqua fra le pietre.
È buio ancora, ma poco a poco s'ode
destarsi il mondo intorno, e farsi giorno.

Stormiscono le betulle; già cantano gli uccelli;
brulica e freme tutta la campagna.

Brulica e freme tutta la campagna;
ardono torce in cima alle betulle.

Al nott, al nott ed lona ech bell andê,
pian pian, sol da par sé, pr al strê dè mond;
e guardê, quéll ch' u s' vëd e u n' s'  vëd, intond,
e quéll, ch' u s' sent e u n' s' sent, stê d'ascultê...

E' starmess una bdolla; e' baja un can:
gnaquèl e' pêr avsen, mo l'è luntan...

E' sghignazza 'na zvetta; un lom s'apeja:
sempar finida e mai fnida la véja...

Nelle notti di luna è dolce andare
soli, in silenzio, per le vie del mondo;
guardar ciò che si vede e non si vede,
ascoltar ciò che s'ode e non si ode.

Mormora una betulla; un cane latra:
ciò che era vicino è già lontano.

Sogghigna una civetta; occhieggia un lume:
la via è sempre finita, e mai è finita. 

In ste zarden intìgh, mo intìgh 'na massa,
u n' s' sent êt ch' udor d' fonz e tuffegn d' moffa.
Un can, str' al foj cadùdi, e' raspa e e' troffa;
'na vècia dal bròcch secchi la ramassa.

Longh i viël, squës totti al statuv d' zéss
al fnéss d' cadë, a bcon a bcon, 't i pëzz...

Al fnéss d' cadë 't pézz, a bcon par bcon...
E' can, cla vécia, mè e pu piò incion!

In quest'antico antichissimo giardino,
si spandono, acri, funghi e muffa.
Una cane, tra le foglie, raspa e fiuta;
una vecchia raccoglie rami secchi.

Lungo i viali le statue di gesso
cadono una ad una, pezzo a pezzo.

Cadono pezzo a pezzo, una ad una.
Il cane, quella vecchia, io, e nessuno.

Dla nëv di ëlbar ai bdël u n' i n' è piò
e, nench pr al tèr, e' su linzol l'è lis.
Incora un pô d' pazzenzia, e a turnarò
a vdër e' mond cm' e' foss un Paradis.

S'al bròcch di mandl i pton i sguicciarà
e, un pô spurì, a e' sren i ridarà.

S'al bròcch di mandl i fiur i ridrà pian,
pian, sott' un zil ëlt, gni dè piò, e luntan.

Non c'è più neve d'alberi sui ceppi, 
e anche sui campi il suo lenzuolo è liso.
Breve ancora l'attesa, e tornerò
a rivedere il mondo come cielo.

Sui rami dei mandorli
occhieggeranno le gemme 
e ancora un poco impaurite
rideranno al sereno.

Sui rami dei mandorli
rideranno piano i fiori
sotto un cielo ogni giorno
più lontano e più alto.

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