venerdì 27 aprile 2012

La fine dell'Opera / Vincenzo Di Maro


Vi mostrerò la sua veste e le membra coperte di sangue / E l'ombra grigia che sta sulle sue labbra”. Con questa citazione di T. S. Eliot, tratta da La morte di Narciso si apre la raccolta di Vincenzo Di Maro La fine dell'Opera. E già in poche righe troviamo elementi che messi in relazione possono generare tanti orizzonti. Voglio mostrarvi il procedere della corretta suggestione. Veste, vestigia dunque corpo. Veste e membra dunque sudario. Veste e membra coperte di sangue, crudeltà. Crudeltà mi manda ad Artaud. La morte di Narciso al Teatro e il suo doppio: “Il pubblico, anche se ritiene vero ciò che è falso, ha il senso del vero e risponde sempre quando glielo si presenta. Oggi però non è più sulla scena che dobbiamo cercare il vero, ma per istrada […]. Se la folla si è abituata ad andare a teatro ciò è accaduto perché ci hanno troppo spesso ripetuto che era teatro, cioè menzogna e illusione”. Geniale intuizione. Come le cose viste in televisione, smettono e sono la televisione. E il libro di Di Maro si apre con Antefatto una prosa poetica di altissimo potere immaginifico. Non a caso, il padrino che s'è scelto per questo duello è Mister T. S. Eliot. Questo è il primo verso: “Un'antica palude in mezzo al bosco”. E anche qui, oh apriti tabellina delle possibilità! Palude...Edgar Allan Poe, The fall of the house of Usher:Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell'anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finché' ero venuto a trovarmi, mentre già' si addensavano le ombre della sera, in prossimità' della malinconica Casa degli Usher. […] Frenai il mio cavallo sull'orlo scosceso di un oscuro e livido lago artificiale che si stendeva con la sua levigata e lucida superficie in prossimità' dell'abitazione, e affissi lo sguardo, con un brivido pero' che mi scosse ancor piu' di prima, sulle immagini rimodellate e deformate dei grigi giunchi, degli spettrali tronchi d'albero, delle finestre aperte come vuote occhiaie”.
Ho scelto di riportare molto di questo passaggio, non certo per la palude, ma perché molti di quelli che scrivono o spiegano a scuola questo racconto non sanno che Usher in armeno significa Memoria. E la caduta della casa Usher infatti è un racconto sulla Memoria. Ma torniamo all'Antefatto. La città che descrive Di Maro ha questa pozzanghera sul fondo che il Comune tenta continuamente di coprire, asciugare, senza riuscire mai ad evitare che l'acqua riaffiori, proprio come la memoria, un pozzo che non puoi far tacere neanche gettandoci pietre. Inoltre la città ha una linea d'ombra. Infatti è sovrastata da una rupe “che ricopre a mezzo la città, e impedisce alla pioggia di cadervi: non una goccia giunge alla metà più ombrosa”. Assurdo, ma è così. C'è questa rupe che fa da spalla, stampella gobba, e lascia mezza città in ombra. E sopra questa parte sempre asciutta e grigia, si erge il Teatro dell'Opera con una facciata colma di fregi e stucchi, esattamente come la Casa degli Usher. Citando: “L'ultimo spettacolo, qualche decennio fa. Butterfly, pare di ricordare”. Ed ecco che suona il campanello, e come fa Bruno Vespa, io faccio entrare Nietzsche, Zarathustra e il povero funambolo. D'altronde quale nome da donna fu mai più funambolico di Madame Buttefly che già vola via a pronunciarlo? “Quando Zarathustra giunse alla vicina città che è presso le foreste, trovò gran popolo raccolto sul mercato: poiché era corsa voce che vi si sarebbe veduto un funambolo. […] Allorché Zarathustra ebbe parlato così, uno del popolo gridò: «Abbiamo ora udito abbastanza del funambolo; fate che adesso lo vediamo!». E tutto il popolo rise di Zarathustra. Ma il funambolo che credette la parola rivolta a lui, si accinse all'opera sua. Ma allora accadde qualcosa, che fece ammutolire ogni bocca, irrigidire ogni sguardo. Nel frattempo il saltimbanco aveva infatti cominciato il suo lavoro: era uscito da una porticina e camminava su la corda tesa fra le due torri, così che rimaneva sospeso sopra il mercato e la folla. Quando fu appunto a metà del suo cammino, la piccola porta si aperse ancora una volta, e saltò fuori un garzone screziato, somigliante a un pagliaccio, che seguì con passi rapidi il primo. «Avanti, zoppo, gridò la sua terribile voce, avanti poltrone, paltoniere, faccia smunta! Bada ch'io non ti carezzi con le mie calcagna!». E ora dall'opera di Vincenzo Di Maro: “ L'ultimo spettacolo, qualche decennio fa. Butterfly, pare di ricordare. Memorabile il numero di una gloria locale: soprano sul finale di carriera. Vera virtuosa, celebrata ovunque. A casa per l'addio alle scene. Diede un urlo inumano, giusto a metà atto. ( metà atto, metà cammino del funambolo, ma cos'è la metà? Forse la linea d'ombra della città?) Inaudito. Raccapriccio tra il pubblico. Un'offesa. Un orrore. Un'enormità prima delle parole. ( il vuoto del funambolo). E non solo, entrambi faranno la stessa fine, verranno trasportati nel bosco fuori città, abbandonati vivi, semivivi, mezzimorti, fantasmi di una Memoria che non ha più motivo di esistere.

Sebastiano Adernò


LA FINE DELL'OPERA
Vincenzo Di Maro
Lietocolle - Collana Erato
2011, 72 pgg, €13, 00

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