lunedì 2 maggio 2011

Giovanna Scarca su Colibrì

recensione di Giovanna Scarca (pubblicata in forma ridotta su «Città di Vita» novembre-dicembre 2010, v. qui)


È forse il paradiso
questo? oppure, luminosa insidia,
un nostro oscuro
ab origine, mai nascosto sorriso?

(Mario Luzi, explicit del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini)

La voce poetica di Anna Maria Tamburini fluisce soave da un sorriso dello sguardo e della mente, il sorriso ab origine di colei che è umile, silenziosa e incandescente come chi gode della sua amicizia può attestare. Un sorriso mai nascosto, traccia di luce e d’infinito impressa dal Creatore nelle sue creature, in tutte le sue creature.
Il vivacissimo colibrì di Anna Maria è stato disegnato dalla figlia nella copertina come un’esplosione di colori liquidi e cangianti che puntano verso il cielo:

ferme
le minuscole piume azzurroverdi
a tratti vorticavano energia
(pag. 34).

Immobilità e vortice d’energia è il paradosso di questa poesia, come di ogni vera poesia:

il colibrì
fuoriuscito da strati
del vissuto,
il cuore che palpita
all’attesa,
all’incrocio degli incontri,
all’erta
(p. 35).

Poesia è attenzione, perché “l’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero” (Cristina Campo, Attenzione e poesia): i versi di Anna Maria Tamburini sono scritti dall’attenzione acuminata di un vedere, sentire, pensare che palpita in comunione col creato, e attende vigile l’intersezione di tempo ed eternità, dalla quale gocciola la poesia, l’arte, la preghiera. L’attenzione di Anna Maria cresce educata e scavata dalla Parola, meditata quotidianamente anche attraverso lo specchio luminoso della letteratura e della poesia, che di essa è mediazione.
Le poesie di Colibrì distendono una visione che mai declina a cronaca, svolgendo un percorso in quattro sezioni la cui ambientazione, soprattutto nell’ultima parte, ha affinità con i Quattro Quartetti di Eliot, uno degli autori di riferimento negli studi di Tamburini: un viaggio marino (sull’equoreo seno), terrestre (affiora l’adamàh) e celeste (alle superiori acque) verso il compimento che è al contempo la sorgente del mistero dell’esistere, il puro fuoco, lo Spirito divino che crea, custodisce e infiamma l’anima. Il linguaggio non cela le proprie ascendenze bibliche mentre si intreccia armoniosamente a un raffinato repertorio di citazioni letterarie; infatti l’autrice, finissima studiosa di poesia letteratura e teologia, attinge alla Santa Scrittura, alla liturgia e ai poeti più frequentati e amati, componendo un tessuto in cui trama e ordito sono le feconde osmosi tra Bibbia e letteratura, tra attenzione e visione.
Sull’equoreo seno (frontespizio che echeggia la sua formazione classica, da Virgilio a Leopardi) introduce nel primo quartetto, dominato dalla distesa marina dell’Adriatico e dai bagliori dell’aurora orientale, dove “capriòlano” coppie di delfini e s’intrecciano cavallucci di mare. “Un continuo miracolo è per me il mare” (scrive Walt Whitman, Leaves of grass) e nella visione di Tamburini l’agente del continuo miracolo è la luce: dalla superficie “in crespo d’onde”, la luce si rispecchia sul fondale e si rifrange, in una danza tremula di stelle e ombre. Mentre la luce penetra verso il basso e rifulge verso l’alto, analogamente  si sdoppia la voce poetica, alternando testi in carattere tondo a meditazioni e riflessioni in carattere corsivo, evocanti altre presenze e ulteriori nessi. Questa modalità dialogica assai originale, che moltiplica gli orizzonti semantici ed esistenziali, suggerisce al prefatore, Gianfranco Lauretano, l’ardente definizione di “poesia sponsale”: è nuziale infatti la vocazione poetica e spirituale della Tamburini, non solo per la dedica (“a Paolo, mio compagno e sposo”) ma per la costellazione tematica e lessicale che insiste su “incontro”, “incrocio”, “abbraccio e intreccio fecondo”, “richiamo d’amore”, “chiamata”, “di amorosi sensi corrispondenze” (dai Sepolcri del Foscolo) , cogliendo e restituendo in ogni pagina il dinamismo comunionale che muove la creazione e com-muove l’anima e la scrittura. L’ultima poesia della prima parte reca l’immagine agostiniana del bambino che sulla spiaggia tenta di versare il mare in una piccola buca, ma “occhi sgrana il bimbo d’azzurro” e traspare ancora quello sguardo di sereno stupore e luminosa apertura.
Affiora l’adamàh  rimanda a Genesi 2, 7: “il Signore Dio plasmò l’uomo (in ebraico adàm) con polvere del suolo (adamàh)” . Nel secondo quartetto il paesaggio marino lascia il posto agli “strati della terra / lungo cicli di ere / minerali”, e alle creature animali e vegetali: “lo smeraldo” delle libellule che sfiorano il torrente, “la fede del fiore”, l’orso che cede al letargo, la biblica e pascaliana canna vocale al vento, figure che Giorgio Barberi Squarotti apprezza come nuove e mirabili. Tutto avviene sotto l’incessante scrosciare della luce fisica e metafisica, mentre la poetessa avvia una lucida interrogazione sulla vita, sulla morte, “un istinto di dominio / una menzogna”, interrogazione addensata in pochi versi, che lasciano espandere le domande in centri concentrici sempre più ampi, in cui però l’ultima parola è proprio la parola, e non un silenzio angosciato, in cui la vita e il meriggio sono più forti delle tenebre:

la vita – torrente –
afferrare – è lieve
la vita – in mano
niente resta
(pag. 26).

Alle superiori acque contiene il cenno delicato e discreto del luogo che ispira l’incantata visione: i giardini della Mortella nell’isola d’Ischia, col loro tripudio edenico di fiori, piante tropicali, fontane, serre e azzurre vertigini.

Pioveva
alla mortella
sulle palme tese delle piante

un thè
nella pagoda tra cielo e terra
beveva alla blu sete del mare

a lato
in serra le orchidee
iridavano lo spreco di luce
(pag. 34).

Il giardino esotico è paradiso di insetti e uccelli, che ritroviamo in queste pagine in tre sceltissimi esemplari. Il terzo quartetto dichiara infatti l’intento di tenere insieme una “preziosa / inutile? ornitologia” e una “cara piccola / entomologia”, e queste lievi, ironiche dichiarazioni di poetica, ricordano ancora la lezione di Cristina Campo: “Un poeta che ad ogni singola cosa, del visibile e dell’invisibile, prestasse l’identica misura di attenzione, così come l’entomologo s’industria a esprimere con precisione l’inesprimibile azzurro di un’ala di libellula, questi sarebbe il poeta assoluto. È esistito, ed è Dante” (Gli imperdonabili).
Immersa nella bellezza del visibile e dell’invisibile, i versi di Anna Maria scorrono felicissimi e cantanti, nell’estrema distillazione lessicale  e ritmica e con purissime allitterazioni che ricamano dettagli ed evocano mondi. L’ape dell’amatissima Emily Dickinson, poi il colibrì e infine il merlo:

all’ape amica mia
la dissoluta di rugiade
che calici deliba
nel visibilio di aromi
(pag. 32).

Il merlo all’alba “dà voce alla luce... avvia le lodi” e alla sua antifona rispondono coralmente gli altri abitanti dei rami. È facile accostare queste delicate aurore, questi angoli in cui la natura mostra il suo diadema, alle atmosfere di sorgivo stupore della poetessa di Amherst , perché in entrambe le loro anime “la Parola distilla / umori a tratti / impreveduti / e silenzi/ chiarori” (p. 32). Non sembra casuale che Tamburini abbia ripreso i versi così fastosi dedicati all’ape dalla Dickinson se si considera che appartengono a una poesia che ha analogie tematiche e strutturali con un salmo di lode (e con la potente e poetica teofania che chiude il libro di Giobbe):

Portatemi il tramonto in una coppa,
numerate i flaconi del mattino,
contate la rugiada:
ditemi dove il mattino si spinge,
ditemi quando dorme il tessitore
che ordì l’azzurra vastità!

Descrivetemi quante son le note
nell’estasi del nuovo pettirosso
fra gli attoniti rami;
quanti viaggi fa la tartaruga,
e quanti calici deliba l’ape –
la dissoluta di rugiade!

E chi fece i piloni dell’arcobaleno
e chi conduce le docili sfere
con vincastri di tenero azzurro?
Quali dita intrecciarono stalattiti,
chi conta i chicchi della notte,
perché nessuno manchi? ...


(E. Dickinson, Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di M. Bulgheroni, Mondadori, 1997, poesia n. 128).

Si può allora ribadire quanto già accennato che questa poesia sia legata e consonante con la Bibbia, grande codice della cultura, non solo filologicamente ma perché ne condivide la ricerca di senso, l’ascolto e la visione.
Nell’ultimo quartetto, l’omaggio alla vita contemplata nelle sue quotidiane epifanie, si accende di un fuoco mistico che svela la scaturigine e il fine della creazione: fuoco, vita e amore sono le parole che legano gli ultimi sette componimenti, in cui il “giardino della mente” di Anna Maria Tamburini dialoga con alcuni poeti amici e maestri, per ripetere insieme a loro una sapienza antica ma sempre da riscoprire. Il primo nome a essere delicatamente evocato è quello di Vittoria Guerrini, nota come Cristina Campo, e la sua sublime Missa Romana, la prima poesia liturgica edita nel 1969, alla quale Anna Maria ha dedicato un importante saggio di lettura (in «Città di Vita», luglio-agosto 2008). Vittoria-Cristina, che María Zambrano ricordò alla sua morte come “fiamma”, suggerisce alla Tamburini una condensazione di simboli danteschi intorno all’amore-fuoco;

e non muore che avvampa
all’amore che avvolge
che dona perdona congiunge…
(p. 40) ,

versi meravigliosi per densità spirituale e per la morbida sonorità delle allitterazioni consonantiche.
Nel penultimo componimento è riconoscibile l’omaggio al genio russo Pavel Florenskij il quale, scrivendo ai familiari dal lager delle isole Solovskij, eludeva la censura e la proibizione di parlare di Dio usando il linguaggio cifrato e simbolico dell’aurora boreale e riuscendo così nel “paradosso del dire Dio lasciandolo non detto” (dall’introduzione di N. Valentini a P. Florenskij, Non dimenticatemi, Mondadori, 2000). Che sia proprio questo l’aureo segreto della voce poetica che stiamo ascoltando? Che contempla la creazione e ne compone un inno, senza nominare il Creatore se non con rari nomi obliqui? (Solo a p. 30 leggiamo “la gloria del Dio vivente”, successivamente: Parola, Cielo, Spirito). Se fosse, potremmo riconoscere una scelta corrispondente alla trasfigurazione del linguaggio della Dickinson e alla poesia della vita di Agostino Venanzio Reali.
Quest’ultimo, Gustín (il frate cappuccino alla cui poesia Tamburini ha dedicato fondamentali e appassionati contributi di studio, promuovendone la scoperta e l’avvio di una lettura critica), sulla scia della Dickinson ha cantato l’unità del reale, e la presenza e trasparenza di Dio in ogni cosa, perciò lei può rivolgersi a lui così:
“ci ri-conosceremo / amici a ogni cosa”, adattando i versi di Rivelazione:

Stringete il cerchio amici
profilati contro dune
o sotto chiare betulle.
Crepiti il fuoco
nella musica dei mondi.
Dio è un riso di pupille
innumerevole più del mare.


Ci ri-conosceremo in lui
amici di tutte le cose.


Nei versi di Reali, ritroviamo il fuoco crepitante, simbolo della teofania biblica, “nella musica dei mondi” che Tamburini fa risuonare con ossimori e antitesi:

È frastuono d’oceano nel silenzio
vasto il pieno d’orchestra
delle orbite celesti
(p. 41)

Anche Tamburini, insieme a Reali e Teilhard de Chardin (Pierre dell’ultimo componimento), nell’ultima sezione ricompone in unità di visione e di senso le molteplici bellissime immagini delle prime tre parti, cantando la solidarietà profonda tra gli elementi della creazione, le connessioni e interdipendenze:

Da un capo all’altro
non un frullo \ si perde
non battito d’ala \


di farfalla palpebra pinna
non ticchettio di sfera


d’ogni specie. Non si perde. 
(p. 41)

“Urti e discontinuità / d’ogni sorta” (p. 44) nella materia, nella natura, nella storia, non frenano l’impercettibile eppure reale evoluzione dell’universo, “il lieve suo corso”, “il sensibile moto”, che padre Theilhard de Chardin, in  L’ambiente divino (1957), ha descritto come mosso e compenetrato da Dio e condotto verso il compimento escatologico, la pienezza di Cristo tutto in tutti. Il teologo, scienziato e paleontologo gesuita (dapprima incompreso, successivamente apprezzato da pontefici come Paolo VI e Benedetto XVI) ricollega il fenomeno spirituale al fenomeno cosmico attraverso l’organismo umano, che riceve in dono di intuire la Diafania di Dio nel cosmo. Questa visione spirituale è richiamata e sottesa con discrezione da Anna Maria nell’ultimo componimento, in terzine.  Dal “commovimento / in volo / di elementi” (esergo che apre Colibrì) all’uomo, con la sua dignità e vocazione inscritte nell’anima:

Al centro l’uomo – al margine? –
re sacerdote figlio e servo
d’argilla d’acqua e di aria si anima
(p. 44)

L’uomo è biblicamente re, sacerdote, figlio e servo secondo l’unzione regale che Cristo ha effuso sull’umanità con la sua incarnazione, passione e resurrezione. L’uomo assume in sé e unifica i quattro elementi primordiali, terra, acqua, aria e fuoco, secondo il racconto già citato di Genesi 2, 7-8, in cui Dio plasma l’uomo con argilla e acqua e gli infonde aria, il soffio di vita, l’anima.  Ed è l’anima a palpitare nelle tre terzine finali, “la punta dell’anima / ama e altro chiede”, chiede “vita ed eterno” “e ogni corrispondenza”.
L’anima è lieve, come un giunco (la strofa di Agostino Venanzio Reali che chiude la raccolta ci dice tutto di lui e di lei) ma l’amore che la sostanzia bene-dice ogni minima creatura del cosmo e augura il bene.    

A volte si tocca il punto fermo e impensabile
dove nulla da nulla è più diviso,
né morte da vita
né innocenza da colpa,
e dove anche il dolore è gioia piena.
Sono cose, queste, che si dicono per noi soltanto.
Altri ne riderebbero.
Ma dire si devono. Le annoto
per te che le sai bene e per testimonianza dell’amore eterno…


(Teilhard de Chardin, Hymne de l’Univers, citato da Mario Luzi nella sequenza conclusiva del poemetto Su fondamenti invisibili).

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