Anna Ruotolo, Prodigi. Poesie 2007-2023
Italic peQuod 2023
recensione di Flavio Vacchetta
Nelle poesie di Anna Ruotolo si parla spesso di amore: uno dei “prodigi”, come da titolo dell’ampia raccolta.
Scriveva Caproni: “una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto”; e in questa poesia non c’è (e sarebbe il minimo sindacale), astrazione o retorica, ma un rapporto disseminatorio, articolato e concreto, tra l’io e gli oggetti, il paesaggio, i gesti. D’altronde già le “chiare, fresche et dolci acque” risultavano un'emanazione diretta, per contiguità fisica, dell’amata. Così “tutto intero sei stato qui / sempre perdendoti un po’ negli angoli”, o ancora:
Entro come una lama fra le tue cose:
una sedia, un caffè ristretto, il libro da iniziare.
C’è l’abbraccio, la cupola che faccio
con le dita appena nate sul dorso delle tue.
La raccolta è introdotta però dal “prodigio” nella nascita, o rinascita, e inanella altri, alquanto ossimoricamente, prodigi prodighi. Ché si tratta di poesia di vitalità che definirei giovanile, empatica, vibratile, attenta ai minuti stimoli sensoriali, e sembra dirci di non essere troppo scettici, quando non ostili, allo stupore e ai miracoli.
D’altronde i poeti devono essere mediamente piuttosto fiduciosi sulla capacità della parola poetica di illuminare l’oscurità: così, dove si parla di ’secondo luce”, si cita Sereni ma sovviene anche, e d’altronde si parla di mare e di treni, Montale e la “dura / oscurità che rompe / qualche foro d’azzurro”, o i “chiusi uomini in corsa / nel traforo del sasso / illuminato a tagli / da cieli ed acque misti”. E qui “le cose che brillano nelle code dei treni” dialogano ancora, a non troppa distanza, con quella “coda / fulgida che trascorra in cielo prima / che il desiderio trovi le parole”.
Le capacità persino divinatorie della poesia emergono anche attraverso l’esplorazione del corpo, la lettura della mano o dei fondi di caffè, l’enigmistica (“annerire gli spazi col puntino” per veder comparire su un muro l'effigie della persona amata).
La poesia scruta nel profondo, come la balena, simbolo che si presta a molte interpretazioni, ma che mi piace accostare al palombaro di Govoni (qui pure menzionato). D'altronde questi sono versi dalle molte prospettive, proprio in senso fisico, verso l'alto o verso il basso.
Appare anche una poesia dialogante, fiduciosa nella comunicazione, con numerosi rimandi a motivi di condivisione, convivialità, spesso in ambito domestico. Una sezione è intitolata appunto “Telegrammi”, dove si pone, o quantomeno mi pongo, la questione del destinatario (esterno, intendo): sempre la poesia ne necessita, di implicito o di esplicito, e individuarlo, ricostruirlo, attraverso il filtro del preponderante sé è una delle imprese. Un’altra sezione, “Dialoghi”. E un’altra: “E questa è casa mia e qui comando io”; e qua e là tavola, tazze, cuscino, divano…; il tutto da interpretare, mi pare, non in senso esclusivo ma inclusivo, come si vede nell’elogio della “tuttitudine” in opposizione alla “solitudine”. Si tratta di tendere ponti, scale altissime e infinite, portare “nel secchio tutto il mare / nella botte senza più vino il cielo”, ancora in un collegamento fra estremi. “’A’ come avvicino”, d’altronde.
La modalità ludica non è affatto estranea, a cominciare dal gioco verbale, l'indovinello, il gioco del “facciamo che…”, fino alla poesia sul nome palindromo Anna.
Attraverso l’amore si esprime anche un processo di crescita: “l’amore numero due […] impara a stare zitto due giorni di fila”. Questo percorso, anche poetico, “oltre le cose”, oltre il muro della terra direi, approda al confronto con la morte, tra croci, angeli, e l’immagine della propria morte; e c’è soprattutto la preoccupazione di costruire qualcosa, realizzare un progetto, una casa, ma nel bisogno di non credersi soli: “non si parte da soli / verso un’altra vita”. E così vogliamo sperare.

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