Gianfranco Lauretano, Questo spentoevo sta finendo, Alla Chiara Fonte, Lugano, 2013 e Questo spentoevo, Graphe.it 2024
L’intensa silloge di Gianfranco Lauretano si tinge fin dal titolo, e dall’iniziale citazione di Caproni, di ombre autunnali e nostalgiche, e pare poco incline al canto spiegato, ma rimane, nonostante tutto, abbarbicata a un miraggio di superiore armonia, anche se “nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia”.
In corsivo appunto Caproni, che riprende il Dante conviviale, il quale però, nell’affermare lo statuto superiore della poesia, ne attesta anche la sostanziale intraducibilità.
Così pure la prima poesia della raccolta, dedicata alla madre piena di grazia, stabilisce un’analogia con l’esergo caproniano (si leggano a confronto i due testi): la voce “occlusa”, “rinserrata” sta alla “paralisi” che “strazia”, ai “muscoli che non rispondono”, all’assenza di “ricordi di bellezza”, come l’armonia del legame musaico sta a una “brezza”, a un “residuo di energia” della madre che, invocata, “entra nella stanza” facendo “ali stese” di quelle filiali “braccia tese”.
Anche la poesia successiva inizia in tono retrospettivo, “Non ho scritto altro che d’amore”, e poi volge sì al presente, ma il poeta quasi si ritira come spettatore, come se l’amore non avesse bisogno della traduzione poetica, forse perché “a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”. C’è in queste poesie (a proposito del problema della traduzione cui rimanda la citazione dal Convivio) un tensione verso l’autenticità, a più livelli: così nel dialogo, dicotomico, tra corpo e anima, prima si tenta un’autoauscultazione alla ricerca di “segni di vita”, e poi si aspira a una ricomposizione di questo annoso dissidio.
Ma poi emerge la forza polemica, caustica, di una voce che si allarga dall’ambito personale a quello collettivo, come nel componimento eponimo Questo spentoevo sta finendo, o in La bestia. Qui si disegnano immagini quasi apocalittiche, millenaristiche, profetiche (e perciò ancora dantesche), tra il “puzzo di zolfo”, “il lupo”, “la bestia”, associate a cattedratici, politici, anchormen… Di converso, si aspira a una salvezza di stampo evangelico, come in Il valore, o in Dio non c’è: ma non c’è solo perché “è altrove”, lontano da coloro che, “sterili di figli / e di peccati, neppure di quelli / sono più capaci”. L’uomo evoluto non è più nemmeno quello che, secondo Ungaretti, “per pensarti, Eterno, / non ha che le bestemmie”.
In altri termini, semplificando, la domanda è: siamo noi una società relativistica, indifferente, amorfa, prona al mercato, quanto più si dichiara inclusiva e democratica?
“Le magnifiche sorti e progressive” d’altronde sono subito richiamate da una iterata Risposta a Leopardi che prende spunto dal canto Alla sua donna.
Forse potremmo dire che, della “cara beltà”, il nostro poeta ama, inguaribilmente, le manifestazioni e le incarnazioni concrete, sebbene incompiute, provvisorie, mortali - e seppure egli lontano dal “novello aprir” di giornata -, laddove il Giacomo pone l’accento piuttosto sull’irriducibile idealità di una beltà che è più panteistica di un semplice ideale di donna amata, e infatti la ritrova nel sonno, “o ne’ campi ove splenda / più vago il giorno e di natura il riso”.
Piuttosto, comune tra i due poeti ci vedo invece la considerazione in cui tengono la propria età: “nel secol tetro e in questo aer nefando”…
Vi è un’altra poesia divisa in più parti, Dare del tu. Dovremmo partire dal presupposto che “intuarsi”, per usare non troppo a sproposito le parole del solito e sommo Dante (a proposito, in Alla sua donna c’è “indiarsi”), non è questione grammaticale da prendere a cuor leggero. L’inflazione dell’uso del tu produce talvolta una vicinanza illusoria, posticcia e fastidiosa. Ci sono, si dice qui, tanti modi di dare del tu, ai bambini come all’amore, al corpo, e soprattutto a una voce “non di questo mondo”, all’“assoluto”. Ricordiamo come si rivolge San Francesco a Dio nel Cantico delle creature, ma in fondo anche la preghiera del Padre nostro.
E infine vi è un rapporto col mondo, con le cose, un po’ francescano. Si avverte sì un desiderio di rifondazione del mondo, abbiamo detto, ma è proposto in modo tutto sommato dimesso, senza troppi clamori: così una nevicata (Lo spirito della neve), appunto in sette giorni come nella storia della Creazione, può farsi simbolo di rinascita.
Anche nell’ultimo componimento, Gesù non devo dirti niente, si ravvisa da un lato l’esigenza di porsi in contatto intimo con Dio, di cantarne le lodi, e dall’altro il riserbo, la deferenza, il timore di dire troppo, perché a pronunciarlo, il nome di Dio, come un grande uccello, può volar via dalla gabbia, scrive Mandelstam qui citato a suggello, e così si torna al problema della voce che vorrebbe liberarsi e librarsi dalla sua prigionia, ma non è semplice, specie per chi soppesa le parole.
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