Daniele Beghè, Chicane, Avagliano Editore 2024
recensione di Giancarlo Baroni
«Ognitanto dalla sua poesia si stacca una vita / ognitanto dalla sua vita si stacca una poesia». Ho letto questi lapidari versi di Piero Jahier nel volume curato dal critico Paolo Briganti intitolato Poesie in versi e in prosa (Einaudi, 1981). Mentre leggevo pensavo che in qualche modo esisteva una sintonia fra i versi di Jahier e le poesie di Daniele Beghè contenute nella raccolta Chicane appena pubblicata da Avagliano Editore; poesie caratterizzate da una osmosi, da uno scambio continuo fra vita e letteratura, da un rapporto dialettico fra esistenza e scrittura.
La penna di Beghè è intinta nella condizione umana che tutti ci accomuna e, nello stesso tempo, sceglie di raccontare e mettere in risalto la condizione delle persone più umili (gli sfruttati per esempio), meno etichettabili, più stravaganti e per diversi aspetti più interessanti. «Nelle poesie di Beghè», scrive nella sua intensa nota critica Daniela Marcheschi, «un io mai autoreferenziale privilegia lo sguardo orientato verso il quotidiano: quello di una vita urbana straniante nella gravezza di un lavoro insicuro, fra strade che si aggrovigliano e si dipanano in curve e rettifili; piazze affollate; e auto e camion che vanno e vengono. Eppure in questo mondo convulso ci sono anche luoghi reali e metaforici – le chicanes – che impongono lentezza, e persone e oggetti carichi di memoria che ne fanno scoprire altro, e di ben altro valore».
Cosa significhi la parola Chicane del titolo lo rivelano questi versi: «Sul lungo rettifilo il tachimetro / continua a salire insieme alla tachicardia / del pilota. Il motore scarica / a terra tutta la riserva di potenza, / in quel punto preciso del circuito / basterebbe un cane senza guinzaglio / o un sasso sull’asfalto a buttare / fuori strada un asso del motore. / In quel punto interviene il progettista / […] / a disegnare esse in serie, curve / strette di raggio, in contro direzione». Il fatto che chicane sia contemporaneamente il titolo della citata poesia, dell’intera raccolta e di una delle cinque sezioni che la compongono fa capire l’importanza di questa parola-metafora per l’autore.
Il titolo della prima sezione del libro, Rettilineo, e quello della terza, Andirivieni, mi sembra formino assieme al titolo della seconda sezione, Chicane, un trittico che allude e rimanda alle età delle nostre vite. Da giovani si viaggia veloci accelerando lungo il rettilineo quasi a sfidare tempo e spazio; per impedire ed evitare lo schianto occorrono delle curve dalla controllata e modesta forza centrifuga, delle svolte che stimolino la frenata e inducano a comportamenti più prudenti e tipici dell’età matura; più tardi si rallenta come se gli anni trascorsi e l’andirivieni dei ricordi facessero da attrito («coagulo di memoria») rallentando progressivamente la spinta.
Nei versi di Beghè il paesaggio coincide spesso con una estrema periferia confinante con la pianeggiante Bassa parmense. Si tratta di un quartiere che mescola segni arrugginiti di incuria e di degrado («il distributore in stato d’abbandono», «i cestini stracolmi»…) con tracce di una resiliente autenticità che sopravvive principalmente, come onirica archeologia dei sentimenti degli oggetti e delle creature viventi, nei ricordi di chi l’ha vissuta: «Ogni tanto, una volta l’anno o giù / di lì, nel campetto fra gli scivoli violati / dalle bici da cross, arrivava nel terso / e nel piombo degli anni settanta / […] / un circo dimesso: due asini, un’oca / guerriera, una cocherina infiocchettata. / La barbetta della capra, gli spicchi / gialli e verdi un po’ sgonfi, la trombetta / del clown accendevano i nostri occhi / non ancora ammaestrati».
Di fianco a «resti di campagna», di lato a una terra piatta in cui sono i pioppi «la sola dimensione verticale», si estendono isolate le ingombranti e imponenti presenze della contemporaneità come ad esempio gli ipermercati. Può accadere che in un’area limitata convivano «una chiesa medievale / e una bruttura industriale / […] / un’aiuola fiorita e un hangar scoperchiato». A volte il presente si manifesta con forme quasi inquietanti e aggressive, come ad esempio l’auto che «avanza solitaria con ruote / enormi, alte come un cavallo baio» o «il braccio che gira in tondo di una gru» o «un camion che arriva in una baia / di cemento armato»…
Beghè ascolta con partecipazione ed empatia le voci delle persone comuni mentre «parlano dei figli e della scuola / dei contributi della badante / ucraina della madre, delle vacanze», osserva con ammirazione l’amico giardiniere che come «come un poeta senza editore / pota le piante di mestiere. / Scala la cascata di luce / che precipita tra le foglie / lucida della magnolia, / appeso a un vetusto / imbrago», condivide lo sforzo e l’impegno di chi, nonostante tutto, cerca di creare ponti e non barriere, un ponte «che non ti renda isola». Afferma ancora Daniela Marcheschi: «In una realtà resa ipertrofica e che corre e corre lungo i giorni, il poeta ci sospinge a guardare sempre più lontano, verso un orizzonte metafisico».
Alla fine della raccolta, l’autore prega e spera sia proprio poesia ciò che scrive. I versi che in questa recensione ho citato confermano che ci troviamo di fronte a una poesia di assoluta qualità. Chi leggerà per intero Chicane se ne convincerà ancora di più.
Nessun commento:
Posta un commento