giovedì 8 agosto 2024

"Per te" - di Andrea Corsi


 “Per te”

                                                                                                    a D.B.


Pechino


Poeta significa: la cosa più difficile è dire “padre”, esserlo, e dire grazie; è la gloria di una nuvola che spunta prima della sera nel cielo grigio scuro; e dimenticare improvvisamente i palazzi sotto, le luci rosse che lampeggiano in cima per segnalarli agli aerei, le insegne e i lampioni, i fari delle macchine che spuntano in fondo tra i tetti più bassi. L’ultimo palazzo del giorno in cielo.

La sera è un abbraccio, arriva fra le grida delle cicale nelle chiome, prima delle luci dei lampioni, della città.

È dare la propria vita, la poesia. Non è un semplice modo fra gli altri, nemmeno è moderno, ancora meno. 

Amicizia? Mi viene da ridere. Il punto è amare.

Mi perdo ancora. Oggi hai già scritto Cristo da qualche parte? Fermare tutto, fermare tutto, l'uomo è stanco.

Fare della gioia miele, custodirlo e darlo all'altro con cura: è qui che siamo sciolti e non ci sono i conti.

Non parla di poesia il poeta. Non parla. A volte mangia.

Sta fermo, mangia se stesso, piuttosto.

Diciamo cosi: c’è chi si suicida, e chi invece si uccide in altri modi: diventa veramente qualcuno, cambia irrevocabilmente, decide di perdere un amico, taglia bruscamente una relazione. Poi c’è chi cerca di vivere, ed è eternamente indeciso, in balia degli eventi, in ritardo, incapace, quasi inadatto, quasi innocuo. Quasi innocuo.

Mi ricordo il nostro spirito giovanile di allora!

Tu hai paura: vorresti vivere per mille anni. Voglio vivere adesso.

Sempre l’uomo del futuro: perché non sono – non siamo nessuno.

Quando si avvicina la sera, e ci si rende conto del fallimento.

Bisognerebbe guarire di quest'altro male alla gola, sede dello spirito; forse abbandonarsi ai rumori, alle luci artificiali, a chi ti ricorda che sei perdutamente incantato.

Perché il problema della saggezza è che non può essere insegnata. Sarebbe inutile, anche dicessi che la vita non è che un compromesso estremo, nelle vette come ai margini, un fedele riusare tutto. Grige sono le nostre decisioni, da molto più vicino, da qui, si vede che non esistono.

Ma un uomo solo, praticamente è morto – ed è naturale che chi cerca ciò che è perso, dovrà perdersi a sua volta. Gli estremi non si attraggono, si raggiungono, piuttosto.

Siamo dei destini e ciascuna singola tragedia è una tragedia collettiva. È un uomo che soffre, parla, soffre.

Ne ho capito la debolezza.

Amico mio…

Ma io ci credevo. Mi piace cambiare.

E allora, stattene lì con le tue parole, poveraccio. Uomo nudo.

Tutto cambia all'ultimo, in segno positivo.

Salvezza. La morte è costantemente da queste parti; basta starsene seduti, tranquilli, aspettare.

Ho riscaldato una tazza di caffé e non l'ho bevuto; l'ho lasciato profumare l'aria della stanza. Volevo darlo da bere alla tazza.

È sparito tutto, è sparito tutto. 

Mi hanno insegnato questo: il niente e la morte. Il niente per contrastare questa falsità che ci circonda, la morte per guardare dritto nel cuore di chi ci sta parlando: siamo vivi per un mistero che possiamo solo cogliere con una carezza. Dirle di sì, alla vita, con l’azione e con la bocca. È nel dire semplice, nell’accoglienza che non giudica, ma guarda…

Guardare in effetti è la cosa più potente: essere uno con la realtà, studiarla, arrivare prima degli altri; capire che cambiare il mondo è possibile se cambiamo nel frattempo noi stessi.

È proprio vero che quando siamo felici scriviamo:

Adesso, per esempio, mi è venuto in mente questo verso,

Il Cristo, le pietre, il sentiero, sorrise.

L'amore ha le sembianze della noia, del cuore confuso, che va all'impazzata.

Come un ragazzo morto nelle braccia della vita, fratelli in un secondo viaggio, vagabondaggio spirituale.

Alzarsi, vivere. I poveri ci guardano. 

Conoscere la scritta incisa sotto la polvere, spostarla con una mano 
 la vecchiaia. Non posso che staccare le mani dal manubrio e abbracciare la discesa.


Gli autobus sono degli elefanti e noi dei granelli di senape.



Lanzhou



Anche scendendo per il sentiero dalla Torre Bianca, canticchiavi, come ad onorare chi ti passava a fianco. Disperato, abbronzato, stanco, decenni che sogni. Quarantenne stanco e disperato. Io ti ho abbracciato.

Ti ho cercato, ti ho cercato, non so più dove cercarti ed eccoti, proprio qua, che mi viene a salutare, o mi chiede di spostarmi, perché sta facendo una foto.

Ho riflettuto. Mi hai criticato. Rifletto spesso. Mi perfeziono. Mi sento bene. Mi fai arrabbiare e arrivo più veloce. Sei stato ingiusto, ma il sogno ha la forma del sorriso e del tempo con cui lotti, e anche io lotto per te. Anche con il sorriso. Il silenzio.

Il silenzio e l'amore. Non ho cannoni, ma solo un filo d'amore, che mi son portato dietro, o forse mi ha fatto arrivare fino a qua. Una curiosità, il silenzio è l'amore carnale. Far finta di non aver vissuto, che oggi sia il primo giorno, è impossibile distinguere tra il dono, il guadagno e la perdizione, il salto nel vuoto. Il vuoto è buono.

Già, quello è il cielo. Quello che vedi, laggiù, oltre il fresco tra gli alberi, giù tra i palazzi e le strade oltre il Fiume Giallo, che scorre sotto larghi ponti, il ponte Zhongshan, il ponte Yuantong.

Morire alzandosi in un certo senso. Vergogna.

Forse l'uomo è il segreto della natura. 
La sabbia, le sdraio sul fiume, un bicchiere di San Bao Tai. Le chiacchiere totalmente inutili. 

Veramente siamo a mangiare le briciole dell'amore io e te, qui, perché non fare amicizia?

“Leggi Moby Dick, ti riempirà”, mi suggerì l’anziano poeta. Poi fece il nome dell’Iliade e della Divina Commedia in quanto, secondo lui, i più “grandi analisti della vita e della morte”.  

Altrimenti perché, minorenne, leggere e rileggere Siddharta di Herman Hesse, guardando il tramonto sopra quel balcone in alto, sul mare di un piccolo paese della costa ligure?

Quella casa che ora non è più nostra, la casa dei miei bisnonni, venduta per i debiti accumulati dalla mia famiglia. Niente più che un ricordo. Il passato. Lo spoglio letto a castello, nella camera semplice, le immagini sacre e le frasi semplici delle decorazioni dei nonni alle pareti; le conchiglie sui davanzali di vetro. Il tavolo fuori dalla larga finestra, sulla terrazza larga intorno a tutto il perimetro del nostro lato della palazzina. Salire sulla collina attraverso le viette calde d’estate, le piante grasse e selvatiche dei bei cortiletti. L’ozio di chi è in vacanza o comunque la certa aria di riposo che aleggia sulle strade, sopra i negozi. L’odore della focaccia e le spiagge dietro i grandi nuovi palazzi costruiti in faccia al mare, con spaventosa sfrontatezza, una decisione estrema, si direbbe. Il benzinaio andando verso il centro, le ristrettezze dei piccoli negozianti, l’illusorio, quindi falso, costoso e quasi ottuso sfarzo delle famiglie arricchite, dai tanti paesi di provincia, dalle periferie delle città, come la nostra, quella falsa cortesia… — l’ozio, lo sciabordare del mare fra gli scogli, il sole su tutto, l'asciugamano, i libri, i giornali. Tutti gli altri paesini per la costa prima dell’orizzonte… Tra Noli e Varigotti, dall’alto… il lazzaretto diroccato, la chiesa di don Giussani, nella passeggiata, poi il tuffo insieme una volta giù. Il riposo e la sera. 

Tutto pronto, tutto funzionava. 

L’amicizia! La nostra amicizia di allora che sfilava come il carro raro e pieno di stranezze di una festa di paese, raro come l'adolescenza, che accade senza preavvisi né spiegazioni, il carro inutile e lento, in balia dei capricci della folla, con la sicurezza dell’ora che passa, spavalda e sicura; come la piazza di un paese, con la sua bella chiesa a proteggerla, a chiamarla, a sfidarla e accoglierla senza molte altre spiegazioni, lì a due passi dal mare: la grande chiesa dalle altissime porte da cui si intravedono le panche e le immagini e le statue per la preghiera, anche in quel posto di paradiso. Come il mosaico della storia del paradiso terrestre, in una chiesa su ad Anacapri! 

La festa con cui si chiude Lo scherzo di Milan Kundera.

Inginocchiarsi, brindare nel giorno di Pasqua, a pranzo, come raccomandava il prete nella piccola chiesa di Santa Maria Ausiliatrice. I frati polacchi che parlano come Papa Giovanni Paolo II. La memoria. La memoria e la fede.

La nascita. La poesia. I poeti. Le avanguardie. La storia. Il Novecento. La storia che si frantuma, come se ci dimenticasse. La memoria. La speranza. 

La speranza. Una traccia, che non è fatta per scomparire.

La mia anima ha paura di morire per sempre, ho una tremenda paura a volte. Per questo ho bisogno dell’aiuto di chi mi sta attorno. Ho bisogno di te. Non voglio più aver paura, né perdere mai più l’abbraccio di questa umiltà, che mi spinge a fermarmi a contemplare ogni mia non comprensione, impossibilità di comprendere. Abbraccio l’ignoranza, mi faccio portare dalla sua strana vergogna intrisa di paura che l’accompagna. La povertà, l'umiltà, il sorriso di fronte alle incomprensioni. Incoerenza. Forse è lo stupore di fronte all’esistere. Alla vita che avviene ora. Proprio ora. Che mi afferra con mani forti. Che mi prende inerme. Così inerme. 

Parole da scolpire sulla pietra.

Un monaco in cima in uno dei templi di Wushanquan, a Lanzhou, mi vede e mi dice attraverso un traduttore, pensando che non parli la lingua e fossi uno studente: “auguro a tutti nel mondo successo accademico...”. Fa un gesto con la mano, portandosela come di passaggio alla fronte, aperta, in segno di saluto e benedizione, prima di tornare a parlare con dei fedeli che compravano oggetti per il culto. Da lassù, i palazzi grigi, per lo più, qualcuno svetta in alto; due signori cercano di indovinarne i nomi: lì c'è la scuola provinciale del Partito? No, quello è l'hotel... Così via. Da lassù, da Lanshan. 

Capito... Non si tratta della mia vita soltanto. Scrivere senza sacrificarsi. Sorridere alle parole e con le parole, ridere, ridere insieme a loro e con loro. Ripetersi e sbagliare e ripetersi ancora: un attimo pieno di ansia che si compie.  







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