lunedì 4 marzo 2024

"Il tempo della carestia" di Gianni Antonio Palumbo. Recensione di Lorenzo Spurio

La nuova opera poetica di Gianni Antonio Palumbo – docente universitario, apprezzato anche quale critico letterario – porta il titolo apparentemente emblematico de Il tempo della carestia. Di quale carestia stiamo parlando? In realtà la domanda basilare e propedeutica che bisognerebbe porsi è che cosa voglia intendere l’Autore con il termine “carestia”. Probabilmente – stiamo, comunque, nel campo dell’inferenza – l’utilizzo di questo termine è in forma analogica e personalizzata, forse addirittura ermetica o depistante. Vedremo nel corso di questa breve analisi quali di queste considerazioni possano sembrare più lontane dall’evidenza, dalla realtà, dalle intenzioni – più o meno palesate – del Nostro.

Un breve excursus dell’ampio e notevole percorso letterario dell’Autore è senz’altro utile a questa altezza, anche perché ci permette di comprendere meglio anche le numerosi fonti citate, le influenze, gli echi e le reminiscenze letterarie, i camei, le ricorrenze e le circostanze che hanno motivato la stesura di determinati testi.

Gianni Antonio Palumbo (Molfetta, BA, 1978) è attualmente docente di Filologia letteraria italiana e Metodologia della critica letteraria presso l’Università di Foggia. Quale critico letterario si è occupato prevalentemente della letteratura italiana del Rinascimento, dell’Ottocento e di quella contemporanea con vari saggi, studi e recensioni anche di volumi di autori contemporanei. Per la saggistica in volume ha pubblicato Vestali in un mondo senza sogni (SECOP, 2011) e La biblioteca di un grammatico (Cacucci, 2012), quest’ultimo sull’umanista Giuniano Maio e curato l’edizione delle Rime (Stilo, 2019) della poetessa lucana Isabella Morra. Sue poesie sono state tradotte in varie lingue e di lui hanno parlato, tra gli altri, in volumi e studi sulla letteratura pugliese, i docenti universitari e critici letterari Ettore Catalano e Daniele Maria Pegorari. Per la narrativa ha pubblicato il romanzo Non alla luna, non al vento di marzo (Schena, 2006) e la raccolta di racconti Il segreto di Chelidonia (SECOP, 2014); attivo anche in campo drammaturgico con la stesura di pièce teatrali, tra cui alcune totalmente inedite. Già redattore della storica rivista barese «La Vallisa», lo è ora delle riviste «Luce e Vita», «Quindici» e collaboratore di «Menabò».

Nella parte centrale della copertina appare un particolare di una tela dai colori ambrati che ritrae una donna, probabilmente immagine di una musa, che suona uno strumento a corde. L’immagine, dal chiaro ed elegante gusto preraffaelita, c’introduce in questo percorso poetico volutamente strutturato in vari itinerari interni, micro-sillogi dotate di un proprio titolo, con un numero di componimenti diversi e afferenti a sfere tematico-concettuali differenti che l’Autore ha inteso evidenziare proprio mediante questa sorta di “catalogazione per capitoli”. Palumbo ha deciso di pubblicare anche vari componimenti non nuovi, non inediti, già apparsi su riviste con le quali collabora o su altri libri (suoi o di terzi, prevalentemente in operazioni editoriali di tipo antologico).

Il tempo della carestia esordisce con “L’autoaprentesi apertura” (espressione che credo voglia richiamare un passo de L’origine dell’opera d’arte del filosofo Heidegger), si snoda nella sezione “Variazione di Selene” con liriche incentrate sul canto (e la ricerca, il colloquio) con la Luna – un tema ricorrente nella poesia di tutti i tempi – in cui la luna non è solo elemento di fascino ma motivo interloquitivo e meditativo (“La notte è nel respiro / la notte è forma dei nostri pensieri. / […] / Siamo notte notte notte”, 42). Immagine-emblema che ha la sua coda luminosa nella sezione successiva, “Non alla luna, non al vento di marzo” che contiene, tra le altre, liriche molto appassionate quali “Memory” e “Nostalgia”. Uno dei temi centrali è quello del ricordo richiamato in forma sottrattiva, vale a dire nella perplessità della memoria, nel timore dinanzi alla dimenticanza (“senza ricordi / sarei un’ombra”, 52). Ci sono due piccole sezioni del volume dedicate ad alcuni luoghi conosciuti e frequentati dal Nostro, con particolare alle città di Bari e Brindisi, e l’altra ai “Familiares”, componimenti che trovano nei rapporti di affetto e stima verso propri cari il motivo trainante per la relativa stesura. In “Lari e miti” il sostrato è interamente di tradizione classica, con rievocazioni, echi e comparazioni, attualizzazioni e considerazioni su personaggi mitologici e le loro particolarità tramandate da sempre. Troviamo affrontata anche la dimensione religiosa nella sezione “Canti spirituali”. Le sezioni conclusive sono “Trionfi” e “L’asfalto e la grazia”, un poemetto.

Per ritornare al dubbio iniziale sul modo in cui è possibile concepire il concetto di “carestia” che Palumbo ha voluto mettere in campo quale emblema del tempo che ha inteso descrivere e narrare in versi possiamo senz’altro porci delle domande. Non credo voglia alludere semplicemente a una mancanza d’alimentazione generalizzata, di fame sociale o, per lo meno, non da intendere come una fame concreta e oggettiva, da saziare con alimenti reali. L’Autore potrebbe riferirsi a una situazione di carestia – di penuria, di mancanza e sofferenza, di vulnerabilità – che è dettata da un impoverimento immateriale, di tipo etico, di sterilità sentimentale, di disattenzione all’altro. L’esergo, in un tono quasi apocalittico, può farci pensare a una sorta di minaccia d’imminente concretizzazione, di uno spauracchio dietro l’angolo e, dunque, il tempo della carestia potrebbe essere quello dell’SOS, della ricerca d’aiuto prima di sprofondare completamente nell’abisso, di addentrarsi senza appigli nel pieno della carestia. Carestia umana, emozionale, dei rapporti, delle intenzioni, intesa come una sospensione che ha dell’irreale ma che l’Autore richiama quale limite massimo che si appresta a essere valicato perigliosamente. È quel che sembra dirci il “Cantico del Controsamaritano” che apre l’intero libro in cui, con freddezza e noncuranza, si legge “Lasciai morire un uomo per ignavia” (9); “voltai la testa altrove” (10), “noi che assistemmo allo scempio dell’umano” (11) e che fa concludere l’io lirico in un moto di disapprovazione e d’implorante castigo: “dacci la vergogna della nostra indifferenza” (11). A questo atteggiamento dettato dalla morbosa impassibilità Palumbo contrappone la solidale compassione e la partecipazione emotiva come quando considera e parla delle addolorate “madri d’Argentina / che hanno smarrito i figli” (107) pur dinanzi all’evidenza della corruzione e della meschinità dei tempi che dominano in “questa nostra smarginata terra” (19).

 

 Lorenzo Spurio

 Matera, 23/01/2024 

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