La
nuova opera poetica di Gianni Antonio Palumbo – docente universitario,
apprezzato anche quale critico letterario – porta il titolo apparentemente
emblematico de Il tempo della carestia.
Di quale carestia stiamo parlando? In realtà la domanda basilare e propedeutica
che bisognerebbe porsi è che cosa voglia intendere l’Autore con il termine
“carestia”. Probabilmente – stiamo, comunque, nel campo dell’inferenza –
l’utilizzo di questo termine è in forma analogica e personalizzata, forse
addirittura ermetica o depistante. Vedremo nel corso di questa breve analisi
quali di queste considerazioni possano sembrare più lontane dall’evidenza,
dalla realtà, dalle intenzioni – più o meno palesate – del Nostro.
Un
breve excursus dell’ampio e notevole percorso letterario dell’Autore è
senz’altro utile a questa altezza, anche perché ci permette di comprendere meglio
anche le numerosi fonti citate, le influenze, gli echi e le reminiscenze
letterarie, i camei, le ricorrenze e le circostanze che hanno motivato la
stesura di determinati testi.
Gianni
Antonio Palumbo (Molfetta, BA, 1978) è attualmente docente di Filologia
letteraria italiana e Metodologia della critica letteraria presso l’Università
di Foggia. Quale critico letterario si è occupato prevalentemente della letteratura
italiana del Rinascimento, dell’Ottocento e di quella contemporanea con vari
saggi, studi e recensioni anche di volumi di autori contemporanei. Per la
saggistica in volume ha pubblicato Vestali
in un mondo senza sogni (SECOP, 2011) e La
biblioteca di un grammatico (Cacucci, 2012), quest’ultimo sull’umanista
Giuniano Maio e curato l’edizione delle Rime
(Stilo, 2019) della poetessa lucana Isabella Morra. Sue poesie sono state
tradotte in varie lingue e di lui hanno parlato, tra gli altri, in volumi e studi
sulla letteratura pugliese, i docenti universitari e critici letterari Ettore
Catalano e Daniele Maria Pegorari. Per la narrativa ha pubblicato il romanzo Non alla luna, non al vento di marzo
(Schena, 2006) e la raccolta di racconti Il
segreto di Chelidonia (SECOP, 2014); attivo anche in campo drammaturgico
con la stesura di pièce teatrali, tra cui alcune totalmente inedite. Già
redattore della storica rivista barese «La Vallisa», lo è ora delle riviste «Luce e Vita»,
«Quindici» e collaboratore di «Menabò».
Nella parte centrale della copertina appare un
particolare di una tela dai colori ambrati che ritrae una donna, probabilmente
immagine di una musa, che suona uno strumento a corde. L’immagine, dal chiaro ed
elegante gusto preraffaelita, c’introduce in questo percorso poetico
volutamente strutturato in vari itinerari interni, micro-sillogi dotate di un
proprio titolo, con un numero di componimenti diversi e afferenti a sfere
tematico-concettuali differenti che l’Autore ha inteso evidenziare proprio mediante
questa sorta di “catalogazione per capitoli”. Palumbo ha deciso di pubblicare
anche vari componimenti non nuovi, non inediti, già apparsi su riviste con le
quali collabora o su altri libri (suoi o di terzi, prevalentemente in
operazioni editoriali di tipo antologico).
Il tempo
della carestia esordisce con “L’autoaprentesi apertura” (espressione che credo voglia
richiamare un passo de L’origine
dell’opera d’arte del filosofo Heidegger), si snoda nella sezione
“Variazione di Selene” con liriche incentrate sul canto (e la ricerca, il
colloquio) con la Luna – un tema ricorrente nella poesia di tutti i tempi – in
cui la luna non è solo elemento di fascino ma motivo interloquitivo e
meditativo (“La notte è nel respiro / la
notte è forma dei nostri pensieri. / […] / Siamo notte notte notte”, 42).
Immagine-emblema che ha la sua coda luminosa nella sezione successiva, “Non
alla luna, non al vento di marzo” che contiene, tra le altre, liriche molto
appassionate quali “Memory” e “Nostalgia”. Uno dei temi centrali è quello del
ricordo richiamato in forma sottrattiva, vale a dire nella perplessità della
memoria, nel timore dinanzi alla dimenticanza (“senza ricordi / sarei un’ombra”, 52). Ci sono due piccole sezioni
del volume dedicate ad alcuni luoghi conosciuti e frequentati dal Nostro, con
particolare alle città di Bari e Brindisi, e l’altra ai “Familiares”,
componimenti che trovano nei rapporti di affetto e stima verso propri cari il
motivo trainante per la relativa stesura. In “Lari e miti” il sostrato è interamente
di tradizione classica, con rievocazioni, echi e comparazioni, attualizzazioni
e considerazioni su personaggi mitologici e le loro particolarità tramandate da
sempre. Troviamo affrontata anche la dimensione religiosa nella sezione “Canti
spirituali”. Le sezioni conclusive sono “Trionfi” e “L’asfalto e la grazia”, un
poemetto.
Per ritornare al dubbio iniziale sul modo in cui è
possibile concepire il concetto di “carestia” che Palumbo ha voluto mettere in
campo quale emblema del tempo che ha inteso descrivere e narrare in versi
possiamo senz’altro porci delle domande. Non credo voglia alludere
semplicemente a una mancanza d’alimentazione generalizzata, di fame sociale o,
per lo meno, non da intendere come una fame concreta e oggettiva, da saziare
con alimenti reali. L’Autore potrebbe riferirsi a una situazione di carestia –
di penuria, di mancanza e sofferenza, di vulnerabilità – che è dettata da un
impoverimento immateriale, di tipo etico, di sterilità sentimentale, di
disattenzione all’altro. L’esergo, in un tono quasi apocalittico, può farci
pensare a una sorta di minaccia d’imminente concretizzazione, di uno
spauracchio dietro l’angolo e, dunque, il tempo della carestia potrebbe essere
quello dell’SOS, della ricerca d’aiuto prima di sprofondare completamente
nell’abisso, di addentrarsi senza appigli nel pieno della carestia. Carestia
umana, emozionale, dei rapporti, delle intenzioni, intesa come una sospensione
che ha dell’irreale ma che l’Autore richiama quale limite massimo che si
appresta a essere valicato perigliosamente. È quel che sembra dirci il “Cantico
del Controsamaritano” che apre l’intero libro in cui, con freddezza e
noncuranza, si legge “Lasciai morire un
uomo per ignavia” (9); “voltai la
testa altrove” (10), “noi che
assistemmo allo scempio dell’umano” (11) e che fa concludere l’io lirico in
un moto di disapprovazione e d’implorante castigo: “dacci la vergogna della nostra indifferenza” (11). A questo
atteggiamento dettato dalla morbosa impassibilità Palumbo contrappone la
solidale compassione e la partecipazione emotiva come quando considera e parla
delle addolorate “madri d’Argentina / che
hanno smarrito i figli” (107) pur dinanzi all’evidenza della corruzione e
della meschinità dei tempi che dominano in “questa
nostra smarginata terra” (19).
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