Luca Pizzolitto, Getsemani, prefazione di Roberto Deidier, peQuod 2023
recensione di AR
“Geografia della sete”, “Nelle stanze senza fuoco”, “Noi resi a noi stessi”, “Come i gigli dei campi”, “Parole per Ugo” sono le sezione che compongono questa raccolta In memoria di Ugo Fama, per avermi tratto in salvo ed insegnato il mare aperto. Nella sezione a lui dedicata troviamo “il silenzio del fiore / in questa preghiera / fatta di vento, inutili / sguardi // nessuna parola”.
Nella penultima sezione Luca ci offre: “Un cielo caduto / l’ultima pietra sul viso / vieni dal vento, dal grido / schiacciato in gola // questa distanza da me, /da tutte le cose.” (p. 79); mentre la poesia che apre la sezione termina con questo distico: “Ha sempre / sete chi rimane.” (p. 77).
Dalla sezione centrale, “Noi resi a noi stessi”: “Ecco il precipizio del sole, ecco i sigilli / disancorati e persi dell’aurora” (p. 66); “Soglia della tua sete / il nome di dio perduto // su noi ciò che resta / dell’infanzia è bellezza / caduta, cenere sul davanzale.” (p. 59).
Risaliamo alla seconda: “Non sai quel che il giorno / trattiene del sogno, / (…) // la nostra terra è terra / di fame e rovina, / sabbia sporca, / un devoto restare.” (p. 43); “Custodite, dici, custodite / del ventre la piaga, il caldo / respiro dei sassi, i corpi / separati così vicini al morire.” (p. 41); “Ora il tempo è un nome / senza colpa.” (p. 38); “la follia del sonno / disfare le stanze in cui / abbiamo vissuto // – ho cercato casa, riparo nel vento.” (p. 73); “Nell’annuncio sacro del vento / una spoglia, disamata / bellezza.” (p. 36); “Questo tempo che / ci respira addosso / è affanno, abbandono // una poverissima luce.” (p. 35); “– mio padre / è cieco, / traccia la via / solo col canto.” (p. 34).
Come si vede anche da questi pochi lacerti, sono molti i richiami, gli echi più o meno espliciti alla Bibbia. Esteso l’uso del corsivo non solo per enfasi o citazione ma, credo, per indicare passaggi particolarmente vibranti e intensi, direi quasi viscerali, in cui il poeta espone sé stesso, l’intestino della sua anima, richiedendo al contempo un’analoga disponibilità a chi legge/ascolta il suo canto. Abile nella stesura dei versi, ricchi di ossimori, visioni e figure retoriche, Luca intesse infatti un dialogo continuo e provocante che richiede coinvolgimento e attenzione. Giusto per fare un esempio, trovo struggente l’ambiguità sintattica nell’ultimo corsivo qui sopra, dove “solo” può essere interpretato sia come aggettivo “da solo” che come avverbio “solamente”.
Nel nostro cammino a ritroso siamo giunti alla prima sezione che ha nel titolo il tema della sete, ricorrente in tutta la raccolta: “La barca è giunta a riva // nella misura perduta / delle carezze” (p. 30); “La notte, prona / sulla tua schiena, / sorgente riarsa.” (p. 24); “Erba amara, fatica è la resa / incondizionata a Dio” (p. 23); “Miseria di sassi e rovine / si posa il deserto di spine / sui volti, la misura / è colma, la via segreta // oggi anche i rami / tengono a stento / l’inverno, l’accorta / casualità del vuoto.” (p. 19); “Il parto avaro della notte / mastica e sputa la displasia / del giorno, separi il respiro / in due acque.” (p. 17).
In questo Getsemani, le parole sobrie, potenti e calibrate, sono il parto in acqua e sangue (Lc 22,44 e, in croce, Gv 19,34) di una lotta che lascia ferite importanti, esiziali, irta di spine, in cui ci possiamo sentire abbandonati, esausti, schiacciati… ma lo stupendo esergo di P. Lucarini alla “Geografia della sete” ci dona una chiave di salvezza: La scelta sta fra tempo / ed eterno, me è proprio il tempo / che ci fa scegliere l’eterno.
Luca si conferma una voce profetica che sa farsi umile eppure prezioso e coraggioso strumento di quel soffio vivificante dello Spirito di cui abbiamo estremo bisogno. Ci ricorda che se a volte i padri sono latitanti, se i figli ondeggiano in un presente carico di ombre in cui il male è dilagante e le tracce del bene non facili da cogliere… Qualcuno (con la maiuscola?) dice: “Io da qui vi guardo: / io non sono terra, riparo.” (p. 19). Anche qui con un “riparo” che può essere interpretato come sostantivo o come voce del verbo riparare. La vita si gioca in questa tensione, nella capacità di ascoltare Ciò che non è terra, sapendo che la fede, l’Amen, non dipende dai nostri meriti, né dai nostri sforzi di “conquista”, ma è piuttosto un dono che sa, se lo vogliamo, intrufolarsi nelle nostre più indicibili bassure e trasfigurarle.
PS Il titolo di questa recensione è il primo verso della poesia a p. 48.
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