Ilaria Maria d’Urbano, Mirra, Prefazione di Giovanni Caccamo, peQUod 2023
recensione di AR
Nei ringraziamenti finali (p. 137) troviamo queste parole di sapore francescano: “Ringrazio la Signora Morte che ogni istante mi insegna a nutrirmi profondamente della Vita. (…) Mi muovo in Esse tra desiderio e paura (…) come la Mirra (dalla radice semitica mrr, amaro) e le sue lacrime di resina capaci di mirrare, rendere eterno e incorruttibile ciò che toccano. (…) Solo accogliendo il dolore, infatti, il mio sguardo diventa capace di entrare in relazione con il Sacro e di rivolgersi al Cielo (con-templum).”
In realtà, prima di avere il libro in mano (in copertina c’è un cofanetto di mirra con evidente riferimento ai Magi), il titolo mi aveva ricordato l’omonima tragedia di Vittorio Alfieri, mentre questa raccolta risolve le ferite, gli abbandoni, i lutti, i conflitti interiori (spesso i più impegnativi e a volte esiziali), con una poesia che attraversa le esperienze sapendo che c’è sempre un aggancio al Celeste, e che le parole sono vere, si fanno “carne quando noi siamo la parola che pronunciamo” (p. 132). Grande è dunque la responsabilità di chi della parola fa la sua arte. Una responsabilità però che non ci schiaccia, anzi valorizza i nostri limiti e ci rende profondamente empatici verso la natura, gli animali (i gatti in particolare) e le altre persone che amiamo o che hanno comunque intersecato (anche con ostilità e inimicizia) il nostro cammino.
Una empatia che ci aiuta a percepire la presenza di energie oltre il tangibile, quella dei santi, degli angeli, e anche l’aura che alcuni incontri sanno generare. Da San Francesco d’Assisi (p. 117): “Ma Tu, Francesco, / soffri ancora per gli uomini? / (…) / È forse Paradiso / non provare dolore? / O entrare nel dolore / è il segreto del Paradiso?”
Immergiamoci ancora in qualche lacerto di questa raccolta pulsante, che coniuga sensuale e spirituale, fiducia e timore, gioia e deserto… unificando il prezioso e dinamico gomitolo di contraddizioni che siamo: della vita Ilaria Maria dice “che sarà Lei stessa / a tuffarmi – rotolandomi / nel solco di una ruga // nella Morte” (Ruga, p. 111); e si chiede “Chi sono? // Un coriandolo di Cielo / in prestito da Dio” (Nettare, p. 91); afferma che l’amore è “in quel silenzio che nessuno disturba / che è solo mio e tuo / della nostra carne sola.” (Essenza, pp. 81-82).
Il paesaggio, l’ambiente, il corpo, i gesti offrono correlativi oggettivi che parlano: “Tu mi vedi montagna / ma non scorgi / i mille tortuosi percorsi / tra i verdi marroni / e gli azzurri assolati. // Tu t’innamori della bellezza, / io ne conosco la fatica.” (Dolomiti, p. 51); “Il desiderio non ha paura / si lancia / e si riscopre / nelle proprie mani” (Al buio, p. 49); “La Tua carezza / è il binario / del mio spirito” (Carezza, p. 46); “Hai cucito il Tuo volto / nei miei occhi.” (p. 43); “La mia carne / è puzzle di assenze / inconsutile” (aggettivo raro che significa senza cuciture, usato per la tunica di Cristo, simboleggia l’unità della Chiesa, Puzzle, p. 34); “panchine verde solitario / spaventate dal buio” (Blackout, p. 25),
Ho scelto il titolo di questa recensione reagendo con grande coinvolgimento personale al messaggio poetico di Mirra, che vorrei riassumere così: in noi è implicito un minuscolo big bang che brillerà oltre la soglia varcata/dischiusa da chi si è fatto “figlio / con un sacchetto di mirra / in tasca” (Mirra (il sogno), p. 72).
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