Biagio Accardo, La luce del più vasto giorno, peQuod 2022
recensione di AR
Il poeta è a suo modo un avventuriero, un profeta (spesso inconsapevole), uno slancio vitale (citando Bergson) che si mette in gioco, “il piede che varca la soglia / ignaro della casa in cui entra” (p. 130). Biagio Accardo è intriso di una luminosa spiritualità scout, per cui le relazioni tra viventi (homo sapiens e altre specie, “Io recito la mia preghiera quotidiana / lasciandomi catechizzare da una formica”, p. 128), l’attenzione ai piccoli, a chi è in situazioni di bisogno (“Scavo in periferie d’anime”, p. 120), il rispetto per la natura e l’ambiente che sono fonti infinite di bellezza ed energia (se non li devastiamo), la ricerca quotidiana di piccoli gesti di pace, l’affrontare gli ostacoli con entusiasmo facendo ciascuno del proprio meglio… ecco credo che questo dia un timbro particolare, impegnato e sorridente, un’impronta riconoscibile, uno stile a questa raccolta per altro composita. Le poesie sono infatti state scritte in un lasso di tempo che supera il decennio (a partire dal 2009) e risentono di un percorso personale che ha dovuto affrontare diverse prove, mai del tutto esplicitate, ma si sente che le parole hanno un peso, una forza che è data dalla loro verità e così anche gli oggetti, gli elementi naturali risaltano nel dettato come immagini indelebili, di empatica autoironia: “(…) Mi chiedo / se fu amore ciò che poi non si ricorda, / se questo vuoto condanna me / e condanna lei al rimorso di ciò che mi ha donato.” (p. 11); “Era lastricata di fango la strada / versi il santuario. Un fico, / spento candelabro, recitava / la sua preghiera annerendo / sotto il gelore dell’acqua.” (p. 20); “Nessuno di noi considerava / (…) / che sarebbe tornata l’ombra / l’ombra così sorella della luce.” (p. 22); “Il fremito degli angoli della casa, / il balbettio dei posacenere” (A più tremanti mani, p. 23); “La mia macchina come mi somiglia! / (…) / quel suo andare storto, una sorta / di dono, e pare anche a me che la guido / di avere qualcosa da dare, / qualcosa di strano che sono e che porto.” (p. 29).
Siamo tutti preziosamente imperfetti, ci ricorda Biagio, mai autosufficienti eppure capaci di innescare cambiamenti, di rendere assieme a fratelli e sorelle di buona volontà il mondo (sociale e ambientale) migliore, di camminare insieme per iniziare a tracciare nuovi sentieri di umanità e giustizia, costruire visioni calate nel reale, responsabili e consapevoli: “Magari dirlo il nostro grazie al tempo / al suo andarsene senza far rumore, / (…) / è un bene che certe feriti stentino / a chiudersi, a rimarginarsi: / così la memoria resta a due passi / dal suo dolore, la corsa si fa lentamente / cammino, la speranza pazienza, / la fede un sì detto abbracciando / tutto il buio della notte.” (p. 33); “ed anche ciò che scrivo è testimonianza / che non mi reca onore: mi copro / le spalle d’un mantello che sfigura, / smisurato per la mia stretta taglia.” (p, 43).
Splendidi i versi seguenti che ci portano all’essenziale (un pensiero simile l’ha sviluppato recentemente Luigi Maria Epicoco ne La scelta di Enea): “Io non so cosa ho perso, / ma ciò che ho perso è solo ciò che sono, / ciò che resta, e questo poco / che resta è il solo pane che spezzo / la razione del mio domani, / quella che lascio sul palmo delle tue mani.” (p. 46). Struggente la dichiarazione: “scrivere poesie che solo / i sassi sanno, l’erba / ode, cantano le lumache.” (p. 52). Lapidaria l’affermazione: “noi siamo tutti un unico nome” (p. 66). Chirurgica la sequenza cesellata a p. 76: “Mi dici se credo? Vorrei risponderti / che sì, credo nella linea / mobile che divide la sabbia / dal mare e questo dal suo cielo; / nel miracolo del bordo di una foglia / che fa di quel verde proprio quella foglia, / buona a schermare la vastità del cielo.”
Come vediamo Biagio Accardo ci accompagna, ci sospinge, ci scuote, ci riposiziona, ci commuove come nella seguente poesia a p. 79 che riproduciamo integralmente: “Ho deciso di amare cose / non più grandi di un sasso. // Chiedo al fuoco che consuma la legna / di dirmi dove ha casa la cenere. // Se questa piange quando il vento / la porta via.”
O la poesia sul Letto di San Francesco a La Verna, con questo pregnante, ossimorico e vibrante ritratto del Poverello (p. 97): “Ah! uomo esile come un fuscello, àncora / del tuo Dio, cardine del suo perenne andirivieni. // come una corda hai retto la sua tenda, / legato alla tua radice il suo passo leggero e inavvertito.”
Biagio confessa (p. 129): “(…) e il mio oramai / è uno scavare che deturpa: somiglia / al campo d’una talpa il cuore, / tessuto da cunicoli di buio e radure / di luce. Ma so che continuerò”. Ci auguriamo ardentemente che lo faccia per essere con lui ad osservare il “(…) volo / della poiana, divinità maestosa, che sfiora / i fragili sterpi, per far ritorno lassù / poi, al picco, dove resta / a guardia del suo cielo.” (p. 130).
PS Il verso che titola questa recensione è tratto dalla poesia a p. 25 (sezione “A più tremanti mani”).
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