1 Quando hai cominciato a scrivere poesie? Da cosa eri spinta? Cosa cercavi?
Non ricordo il momento preciso,
ero bambina. Le mie erano pratiche segrete, notturne. La notte la sentivo madre
di libertà a cui potermi affidare senza timore di essere giudicata. Scrivevo
singoli versi. Illuminazioni. Pensieri musicali che si inseguivano, senza
pause, in una rincorsa di parole-suono, parole-rumore, parole-immagine. Potrei
definirla una forma di accumulazione a cui volevo dare libero sfogo e
movimento, anche una vita propria. Allora ne avevo solo sentore, più avanti
avrei compreso come la poesia già di per sé abbia una vita autonoma, una sua
grammatica non codificata, come sia una lingua “straniera”. Avrei capito che la
poesia è “fuori legge” in tutti i sensi.
In quelle notti buttavo sulla
carta un affollamento di richiami che si coagulavano, «quando amor mi spira, annoto,
e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando» scriveva Dante. Anche io
prendevo nota senza sapere cosa stessi facendo con esattezza, mi apparivano dei
suoni, delle canzoni e allora sentivo la necessità, più una pulsione, di
trascriverle.
Attorno a me faticavano ad
accettare le mie peculiarità, ero “straniera” ai più, alla ricerca di una
“gioia dell’esilio” che stavo inaugurando e che mi avrebbe accompagnata per
tutta la vita. Poiché ero spesso estranea anche a me stessa - come tutti i
poeti - ma di quel senso di straniamento mi nutrivo e nel bisogno di sconfinare
in altri luoghi trovavo ogni giorno la mia salvezza. Scrivere era il mio
respiro.
2. La tua poesia è musicale. È
musica.
Da ragazzina studiavo
pianoforte, la musica mi è sempre stata sorella e anche quelle note erano un
altro modo di dialogare con lo spazio, lo spazio attorno a me e quello
interiore, molto più confuso. Erano confusi entrambi, dal momento che l’uno si
specchiava nell’altro.
Mia madre era una creatura
musicale, aveva una voce bellissima con cui riempiva i suoi vuoti, anche i
nostri vuoti. E ne creava altri. Ma io la voce del conforto e della scoperta l’ho
trovata nelle parole, nel suono delle parole. Non riuscivo a calare il mio
pensiero solo nelle note, non mi bastava, talvolta la confondevano di più.
Nelle parole non cercavo necessariamente l’armonia, poiché la vita quasi mai è
armonica e intonata, e più che dall’ordine (che per altro ignoravo)
pellegrinavo verso suoni stonati, incisivi, evocativi, parole che escono dai
binari della grammatica appresa, quelle che evocano, invocano, rimescolano,
sconfinano, ma non ingannano.
Ero contenta quando le parole
arrivavano a suonare come note e, allora, cominciavo a edificare le mie scale
musicali. Mia madre cantava in casa, era il suo modo di dichiarare la sua
presenza, ma in famiglia un po’ tutti siamo stati musicali e canterini. Suo
padre suonava il contrabbasso, lei il pianoforte e cantava, io scrivevo suoni e
ancora oggi sono una poeta cantastorie.
3. L’aria dentro le parole.
Cosa mi dici?
Io ho cominciato a usare le
parole per suonare l’aria, suonare i miei silenzi. I silenzi sono fatti di
aria, almeno i miei: respirano, ma talvolta quell’aria è statica e allora
abbisogna di una spinta, di un soffio. Un soffio vitale.
Da giovane, ma anche adesso,
pensavo che nel suono viaggiassero più significati. Scrivere in verso significa
“andare verso”, verso qualcos’altro,
verso qualcun altro, non solo verso se stessi in un ritorno ancestrale e
primigenio. “Tutto guarda tutto, tutto vive l’altro, in questo deserto le cose
sanno le cose…” scriveva G.H. Clarice Lispector.
La poesia è sempre un viaggio,
con le sue stasi, le ripartenze, i vuoti d’aria, gli accumuli, gli incontri. La
mia poesia nasce da questa fusione: dalla lingua scritta, da quella orale, da quella
mentale, dalla lingua del sogno, della favola, del mito, dell'immaginario, un
continuo rincorrersi di “cumulo di voci e di rumori”.
Non c'è quasi mai linearità, mai
silenzio, è una lingua disturbata da altre voci che arrivano all’improvviso e
pretendono di essere ascoltare, sono le voci dei miei maestri, dei poeti della
formazione, di quelli che ho conosciuto, frequentato, amato, allontanato,
riavvicinato.
Era, ed è tutt’oggi, così forte
in me il bisogno di scrivere musicalmente, attraverso il ritmo, le
associazioni, la rima, le analogie dell’inconscio: una magia come bagliore di
suoni che cerca continuità, affezione, una sorta d’incanto magico che vive di
per sé e non necessita di traduzioni.
4. Il titolo “Estranea canzone”
accenna a qualcosa di allontanato, che pur esiste, ma con toni più sfocati. A
me è sembrato un romanzo in versi, un labirinto fatto di incontri di un passato
lontanissimo e di un presente più tangibile.
Intanto devo dire che non si
tratta di una raccolta contemporanea, risale a circa un ventennio fa. È una
ristampa rivisitata e leggermente allargata. In fase di pubblicazione sono
stata assalita da alcuni scrupoli, piccoli rimorsi: non avrei dovuto dare la
precedenza ai lavori più recenti? Ne avevo tanti alla mano, più vicini al
presente.
Sì, aleggia un senso di perduto,
risvegliato a tratti da presenze giovani che rubano la scena, riaffiorano, si
fanno sentire come certe presenze storiche, certi maestri, ma anche (nota
dolente) certe allusioni a scuole di intelletto a cui io attribuisco il valore
di uteri dell'ego, sempre pronti a partorire nuovi monarchi della parola e
della cultura che, come ingegneri, separano, tracciano confini, anestetizzano
la parola (io le chiamo “canzoni ammobiliate”, generate dal bisogno di farsi
notare a ogni costo, travestendosi e atteggiandosi a poeta).
Insomma, a che serve inibire la
forza salvifica della parola poetica in nome del proprio ego irrisolto?
Estraniarsi dal senso della Poesia, calpestarla in nome del proprio bisogno
(inappagato) di essere monarchi assoluti?
5. In questa lunga canzone il
lettore può fare molti incontri, sono tutti legati alla tua vita di bambina, donna
e poeta? Sono ritorni, dialoghi incompleti che sentivo il bisogno di riprendere.
C’è la sorella Nadia Campana, guida e non guida, Antonio Porta, Franco Fortini,
c’è la poeta russa Marina Cvetaeva, O.E. Mandel’stam e Ungaretti, ci sono
Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci, Amelia Rosselli.
Si tratta di una raccolta
strutturata come una lunga canzone, popolata da molti personaggi, “fratelli e
sorelle che non presero la parola”, a cui io voglio restituirla; ricordi lontani spezzettati e talvolta resi in
frantumi dal tempo che ha il potere di rimodellare ogni cosa e di renderla “altra”
da quello che era. È una lunga canzone appassionata, a tratti svagata, che poi
monta di una rabbia ormai assopita, perché quella accesa e dirompente non fa
più parte di questa mia vita presente.
E, sì, può essere considerata
un romanzo in versi in cui il flusso della parola viene spesso strappato
dall'esigenza di far entrare nuove voci e questo crea un ritmo fuori dal ritmo,
attratti ossessivo, un delirio voluto in cui le parole, certe parole-chiave, si
ripetono.
6. I grammatologi ci dicono che
leggere una poesia è spesso come apprendere una lingua sconosciuta, un'estranea
canzone.
So che le mie poesie non sono
esattamente facili, non basta una sola lettura (se uno vuole se la fa bastare),
è come imparare una lingua nuova che richiede allenamento, anche empatia: ci
sono parole che si specchiano in altre, si accostano a un’altra e acquistano
sensi nuovi. Ci sono neologismi da decifrare e sincopi di un lessico inedito,
da qui la mia volontà di riformulare grammatica e sintassi. La poesia va oltre
la narrazione, la logica del pensiero, il modo di riordinarlo sulla carta che
ci hanno insegnato a scuola.
Nel mare aperto della poesia,
che offre molte più libertà interpretative rispetto alla prosa, io mi diverto a
ricreare la mia “musica per parole”, la mia grammatica: sostantivi, aggettivi,
avverbi, congiunzioni assumono sovente l’entità del suono con interruzioni che sgrammatizzano
e liberano dagli accademismi.
La parola diventa amuleto,
origine della poesia italiana, salvaguardia della sua matrice, parola capace di
rigenerarsi, mutata tra autori. Ad ogni canto attribuisco alla parola-canzone
significati diversi.
La faccio danzare con scarpette
rosse, la faccio immergere nei fiumi della vita, la faccio incazzare. Chiamo
con maniera polemica “fottuti gruppi” quelli che ambivano a dividere, spezzando
la possibilità di un dialogo e la poesia dovrebbe essere prima di tutto
dialogo, apertura, confronto, sennò rischia di rimanere uno sterile brontolio
di pensiero.
In questi gruppi si formavano
fazioni nemiche, si doveva andare contro: dire male, per sentirsi bene.
7. Si percepisce il tuo bisogno
di unitarietà, non linguistica, ma emotiva. Un bisogno dirompente - espresso da
tagli continui, cesure, balzi in avanti, all’indietro, vaneggiamenti - di
riabilitare la poesia al suo ruolo anche di madre e sorella. Poesia viva.
Certo. Invoco convitti nuovi,
energie nuove capaci di edificare, al posto di muri, separatismi. Una poesia
che sappia edificare dialogo e confronto. Per questo chiamo i poeti per nome e
li mescolo: Attilio, Giancarlo (Maiorino), Giovanni (Giudici), Nadia (Campana),
Marina (Cvetaeva)… li stringo attorno a un comune bisogno, a una patria del
bene che rifiuta fili spinati e troni di ego.
Invoco una rinascita, ecco il
senso dell’ ippogrifo, creatura leggendaria generata dall'incrocio di un
cavallo e di un grifone. Il mio amato Ariosto nel suo Orlando Furioso lo
recupera come emblema dell’impossibile. Nel mio canto l’ippogrifo-impossibile reca
un figlio, di mare in mare, di onda in onda, torna in una piana della psiche
che è Padana, un mite mare da cui tutto può avere inizio.
Parlo del Novecento con molto
amore, è un vero e proprio atto di amore e di nostalgia verso quel secolo che
mi è stato madre e ha partorito tanta bellezza. Faccio rivivere i miei poeti,
li ri-partorisco tra le note della mia canzone per omaggiarli e renderli
nuovamente vivi per chi non dovesse conoscerli (le nuove generazioni) e per chi
dovesse averli dimenticati (in molti).
Riconduco alla vita i veri
padri, le madri, le vere sorelle e i fratelli, mettendoli vicini, in un’unica
classe, come bambini che hanno davanti una vita.
Nomino i sereni e i forti che
allontanano battaglioni, anche quell’Italia della poesia prediligeva la guerra
civile, le separazioni. Io rispondo alla mia maniera, con le mie armi
pacifiche, i miei condottieri della parola, le muse che hanno perito, troppo
pagato, in nome di una malsana ottusità (“animule come prati sempre in fiore
sedevano a un convito quasi ignoto…): le poete suicide, Amelia Rosselli, la
Vicinelli, martire dell’eccesso, e altre poetesse ignorate. Quante donne di
eccelso valore ignorate per via di quei battaglioni che separano e detengono il
potere della “cultura”!
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