mercoledì 21 settembre 2022

Teresa Giulietti intervista Maria Pia Quintavalla

 



1 Quando hai cominciato a scrivere poesie? Da cosa eri spinta? Cosa cercavi?

Non ricordo il momento preciso, ero bambina. Le mie erano pratiche segrete, notturne. La notte la sentivo madre di libertà a cui potermi affidare senza timore di essere giudicata. Scrivevo singoli versi. Illuminazioni. Pensieri musicali che si inseguivano, senza pause, in una rincorsa di parole-suono, parole-rumore, parole-immagine. Potrei definirla una forma di accumulazione a cui volevo dare libero sfogo e movimento, anche una vita propria. Allora ne avevo solo sentore, più avanti avrei compreso come la poesia già di per sé abbia una vita autonoma, una sua grammatica non codificata, come sia una lingua “straniera”. Avrei capito che la poesia è “fuori legge” in tutti i sensi.

In quelle notti buttavo sulla carta un affollamento di richiami che si coagulavano, «quando amor mi spira, annoto, e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando» scriveva Dante. Anche io prendevo nota senza sapere cosa stessi facendo con esattezza, mi apparivano dei suoni, delle canzoni e allora sentivo la necessità, più una pulsione, di trascriverle.

Attorno a me faticavano ad accettare le mie peculiarità, ero “straniera” ai più, alla ricerca di una “gioia dell’esilio” che stavo inaugurando e che mi avrebbe accompagnata per tutta la vita. Poiché ero spesso estranea anche a me stessa - come tutti i poeti - ma di quel senso di straniamento mi nutrivo e nel bisogno di sconfinare in altri luoghi trovavo ogni giorno la mia salvezza. Scrivere era il mio respiro.

 

2. La tua poesia è musicale. È musica.

Da ragazzina studiavo pianoforte, la musica mi è sempre stata sorella e anche quelle note erano un altro modo di dialogare con lo spazio, lo spazio attorno a me e quello interiore, molto più confuso. Erano confusi entrambi, dal momento che l’uno si specchiava nell’altro.

Mia madre era una creatura musicale, aveva una voce bellissima con cui riempiva i suoi vuoti, anche i nostri vuoti. E ne creava altri. Ma io la voce del conforto e della scoperta l’ho trovata nelle parole, nel suono delle parole. Non riuscivo a calare il mio pensiero solo nelle note, non mi bastava, talvolta la confondevano di più. Nelle parole non cercavo necessariamente l’armonia, poiché la vita quasi mai è armonica e intonata, e più che dall’ordine (che per altro ignoravo) pellegrinavo verso suoni stonati, incisivi, evocativi, parole che escono dai binari della grammatica appresa, quelle che evocano, invocano, rimescolano, sconfinano, ma non ingannano.

Ero contenta quando le parole arrivavano a suonare come note e, allora, cominciavo a edificare le mie scale musicali. Mia madre cantava in casa, era il suo modo di dichiarare la sua presenza, ma in famiglia un po’ tutti siamo stati musicali e canterini. Suo padre suonava il contrabbasso, lei il pianoforte e cantava, io scrivevo suoni e ancora oggi sono una poeta cantastorie.

 

3. L’aria dentro le parole. Cosa mi dici?

Io ho cominciato a usare le parole per suonare l’aria, suonare i miei silenzi. I silenzi sono fatti di aria, almeno i miei: respirano, ma talvolta quell’aria è statica e allora abbisogna di una spinta, di un soffio. Un soffio vitale.

Da giovane, ma anche adesso, pensavo che nel suono viaggiassero più significati. Scrivere in verso significa “andare verso”, verso  qualcos’altro, verso qualcun altro, non solo verso se stessi in un ritorno ancestrale e primigenio. “Tutto guarda tutto, tutto vive l’altro, in questo deserto le cose sanno le cose…” scriveva G.H. Clarice Lispector.

La poesia è sempre un viaggio, con le sue stasi, le ripartenze, i vuoti d’aria, gli accumuli, gli incontri. La mia poesia nasce da questa fusione: dalla lingua scritta, da quella orale, da quella mentale, dalla lingua del sogno, della favola, del mito, dell'immaginario, un continuo rincorrersi di “cumulo di voci e di rumori”.

Non c'è quasi mai linearità, mai silenzio, è una lingua disturbata da altre voci che arrivano all’improvviso e pretendono di essere ascoltare, sono le voci dei miei maestri, dei poeti della formazione, di quelli che ho conosciuto, frequentato, amato, allontanato, riavvicinato.

Era, ed è tutt’oggi, così forte in me il bisogno di scrivere musicalmente, attraverso il ritmo, le associazioni, la rima, le analogie dell’inconscio: una magia come bagliore di suoni che cerca continuità, affezione, una sorta d’incanto magico che vive di per sé e non necessita di traduzioni.

 

4. Il titolo “Estranea canzone” accenna a qualcosa di allontanato, che pur esiste, ma con toni più sfocati. A me è sembrato un romanzo in versi, un labirinto fatto di incontri di un passato lontanissimo e di un presente più tangibile.

Intanto devo dire che non si tratta di una raccolta contemporanea, risale a circa un ventennio fa. È una ristampa rivisitata e leggermente allargata. In fase di pubblicazione sono stata assalita da alcuni scrupoli, piccoli rimorsi: non avrei dovuto dare la precedenza ai lavori più recenti? Ne avevo tanti alla mano, più vicini al presente.

Sì, aleggia un senso di perduto, risvegliato a tratti da presenze giovani che rubano la scena, riaffiorano, si fanno sentire come certe presenze storiche, certi maestri, ma anche (nota dolente) certe allusioni a scuole di intelletto a cui io attribuisco il valore di uteri dell'ego, sempre pronti a partorire nuovi monarchi della parola e della cultura che, come ingegneri, separano, tracciano confini, anestetizzano la parola (io le chiamo “canzoni ammobiliate”, generate dal bisogno di farsi notare a ogni costo, travestendosi e atteggiandosi a poeta).

Insomma, a che serve inibire la forza salvifica della parola poetica in nome del proprio ego irrisolto? Estraniarsi dal senso della Poesia, calpestarla in nome del proprio bisogno (inappagato) di essere monarchi assoluti?

5. In questa lunga canzone il lettore può fare molti incontri, sono tutti legati alla tua vita di bambina, donna e poeta? Sono ritorni, dialoghi incompleti che sentivo il bisogno di riprendere. C’è la sorella Nadia Campana, guida e non guida, Antonio Porta, Franco Fortini, c’è la poeta russa Marina Cvetaeva, O.E. Mandel’stam e Ungaretti, ci sono Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci, Amelia Rosselli.

Si tratta di una raccolta strutturata come una lunga canzone, popolata da molti personaggi, “fratelli e sorelle che non presero la parola”, a cui io voglio restituirla;  ricordi lontani spezzettati e talvolta resi in frantumi dal tempo che ha il potere di rimodellare ogni cosa e di renderla “altra” da quello che era. È una lunga canzone appassionata, a tratti svagata, che poi monta di una rabbia ormai assopita, perché quella accesa e dirompente non fa più parte di questa mia vita presente.

E, sì, può essere considerata un romanzo in versi in cui il flusso della parola viene spesso strappato dall'esigenza di far entrare nuove voci e questo crea un ritmo fuori dal ritmo, attratti ossessivo, un delirio voluto in cui le parole, certe parole-chiave, si ripetono.

6. I grammatologi ci dicono che leggere una poesia è spesso come apprendere una lingua sconosciuta, un'estranea canzone.

So che le mie poesie non sono esattamente facili, non basta una sola lettura (se uno vuole se la fa bastare), è come imparare una lingua nuova che richiede allenamento, anche empatia: ci sono parole che si specchiano in altre, si accostano a un’altra e acquistano sensi nuovi. Ci sono neologismi da decifrare e sincopi di un lessico inedito, da qui la mia volontà di riformulare grammatica e sintassi. La poesia va oltre la narrazione, la logica del pensiero, il modo di riordinarlo sulla carta che ci hanno insegnato a scuola.

Nel mare aperto della poesia, che offre molte più libertà interpretative rispetto alla prosa, io mi diverto a ricreare la mia “musica per parole”, la mia grammatica: sostantivi, aggettivi, avverbi, congiunzioni assumono sovente l’entità del suono con interruzioni che sgrammatizzano e liberano dagli accademismi.

La parola diventa amuleto, origine della poesia italiana, salvaguardia della sua matrice, parola capace di rigenerarsi, mutata tra autori. Ad ogni canto attribuisco alla parola-canzone significati diversi.

La faccio danzare con scarpette rosse, la faccio immergere nei fiumi della vita, la faccio incazzare. Chiamo con maniera polemica “fottuti gruppi” quelli che ambivano a dividere, spezzando la possibilità di un dialogo e la poesia dovrebbe essere prima di tutto dialogo, apertura, confronto, sennò rischia di rimanere uno sterile brontolio di pensiero.

In questi gruppi si formavano fazioni nemiche, si doveva andare contro: dire male, per sentirsi bene.

7. Si percepisce il tuo bisogno di unitarietà, non linguistica, ma emotiva. Un bisogno dirompente - espresso da tagli continui, cesure, balzi in avanti, all’indietro, vaneggiamenti - di riabilitare la poesia al suo ruolo anche di madre e sorella. Poesia viva.

Certo. Invoco convitti nuovi, energie nuove capaci di edificare, al posto di muri, separatismi. Una poesia che sappia edificare dialogo e confronto. Per questo chiamo i poeti per nome e li mescolo: Attilio, Giancarlo (Maiorino), Giovanni (Giudici), Nadia (Campana), Marina (Cvetaeva)… li stringo attorno a un comune bisogno, a una patria del bene che rifiuta fili spinati e troni di ego.

Invoco una rinascita, ecco il senso dell’ ippogrifo, creatura leggendaria generata dall'incrocio di un cavallo e di un grifone. Il mio amato Ariosto nel suo Orlando Furioso lo recupera come emblema dell’impossibile. Nel mio canto l’ippogrifo-impossibile reca un figlio, di mare in mare, di onda in onda, torna in una piana della psiche che è Padana, un mite mare da cui tutto può avere inizio.

Parlo del Novecento con molto amore, è un vero e proprio atto di amore e di nostalgia verso quel secolo che mi è stato madre e ha partorito tanta bellezza. Faccio rivivere i miei poeti, li ri-partorisco tra le note della mia canzone per omaggiarli e renderli nuovamente vivi per chi non dovesse conoscerli (le nuove generazioni) e per chi dovesse averli dimenticati (in molti).

Riconduco alla vita i veri padri, le madri, le vere sorelle e i fratelli, mettendoli vicini, in un’unica classe, come bambini che hanno davanti una vita.

Nomino i sereni e i forti che allontanano battaglioni, anche quell’Italia della poesia prediligeva la guerra civile, le separazioni. Io rispondo alla mia maniera, con le mie armi pacifiche, i miei condottieri della parola, le muse che hanno perito, troppo pagato, in nome di una malsana ottusità (“animule come prati sempre in fiore sedevano a un convito quasi ignoto…): le poete suicide, Amelia Rosselli, la Vicinelli, martire dell’eccesso, e altre poetesse ignorate. Quante donne di eccelso valore ignorate per via di quei battaglioni che separano e detengono il potere della “cultura”!

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