lunedì 28 febbraio 2022

Passeggiate (testi e poesie di An Shan)



Conversazione


Oggi, passeggiando con i miei genitori per una via secondaria di un paese. Nebbia, aria fredda, villette a schiera; foglie rosse e gialle sparse per terra. Mio padre si ferma all’improvviso e indica un vecchio muro di mattoni, in fondo al cortile di una casa. Un muro semplice, strati spessi di mattoni a spigola di pesce, intervallati da strisce di ciottoli; un po’ sopra la metà, dei corti bracci di pietra che sporgono a distanze regolari. “Li sopra, commenta mio padre, passava la grondaia” — e mia madre: “Ah, una volta le facevano più belle le cose...” 
     “Come mai, secondo te?” chiedo un po’ più avanti per la strada, ingenuamente, a mio papà; il quale mi risponde semplicemente, ma con esattezza: “Ma, una volta era pieno di gente ignorante e che sapeva soltanto usare le mani. Oggi invece vogliono tutti studiare, e allora...”


(2 novembre 2021)



*




Passeggiata serale



Tutto è silenzio in casa. In giardino

il silenzio si fonde con il frusciare delle foglie

il passaggio di poche macchine in strada

oltre il cancello di ferro, e un cielo terso

tinto dei raggi del sole al tramonto. Le ombre

che si portano dietro hanno raggiunto già 

i miei piedi sul pavimento della terrazza 

dove ho letto l’intero pomeriggio. È autunno?

Si direbbe dal tiepido fresco che oggi 

ho scoperto – ormai non ho più ricordo 

del tempo in cui sto vivendo e i giorni 

passano in un attimo di tempo, uguali, appena

poche variazioni. Sto ingrassando. La sera

verso quest’ora, prendo la bicicletta e mi vado 

a fare un giro per la campagna che sta dietro 

ad un vecchio stabilimento abbandonato in mattoni 

di un rosso sbiadito, usati dal sole, immagino

e dai soffi del vento.  I campi di mais

e di noccioli si allargano in mezzo ai canali

per metà adesso svuotati all’orizzonte 

tra i pergolati dei kiwi, sbucando con la bici 

nella strada ghiaiosa piena di ciottoli che fanno 

saltare le ruote. Si sgonfiano in fretta. Come 

in questo momento, scrivendo, non so bene 

dove voglia andare quando inforco i pedali 

della mountain bike grigia… sono convinto 

di potermi liberare, forse, 

dei pesi al costato accumulati 

durante un’intera giornata chiuso da solo 

in casa fra carte e la mia tastiera. 


È probabile che io mi illuda.


Ma mentre intuisco il buio della sera

arrivare fra le pieghe di un divano nell’altra stanza

ho pensato che uscire sarebbe stata una buona 

idea, e sono corso nella camera da letto

a cambiarmi vestiti. Già che c’ero, ho raccolto

le mutande da per terra, fatto 

un minimo d’ordine – anche questo

è incluso nel mio rituale della passeggiata

serale. Ho aggiustato un lembo

delle gelide lenzuola rammendate 

frettolosamente questa mattina, dato

un paio di sberle ai cuscini. 

Per non parlare dei santini e dei libri

sparsi sul comodino, e i panni in subbuglio

accatastati su di una chaise-longue da lettura

sulla quale credo, nessuno si è mai veduto 

leggerci con un libro in mano. Trovate

le scarpe da ginnastica (le righe gialle

fluorescenti mi elettrizzano al pensiero)

sono sceso. Ora che scrivo queste parole

penso che potrei anche cancellarle dalle 

pagine di questo vecchio quaderno 

che utilizzo per prendere appunti a lezione, 

di giorno; ma la gomma pane a forma di fiore

che avrò modellata un mese fa 

in un momento di noia, 

con i petali increspati 

e l'inutile pistillo di una forcina d’oro

giace a un lato del tavolo di vetro

e non mi va di romperlo o spezzarlo.


Si è fatto bianco il cielo e buio

sempre più sui muri intorno. Non faccio in tempo

forse a uscire come dicevo questa sera.

Sarà colpa di queste parole che non 

si cancellano, questa bellezza che incatena.

Chi ha colto infatti quel fiore 

dalla molle pasta della gomma pane?

…esci, finché c’è tempo, fino a che 

l’ultimo raggio arancio tocchi la foglia

sporgente di un albero prima 

di scomparire dietro lo striato filo 

delle Alpi, finché il buio non abbia 

raggiunto la seconda metà del campo

e la campana non suoni più l’ultimo rintocco.




(13 ottobre 2021)





*





Passeggiata a gennaio (dopo una quarantena)





Verso la metà de I promessi sposi, nel capitolo XVII, c’è una sequenza molto intrigante e evocativa.  Manzoni vi descrive, durante la fuga di Renzo dopo la rivolta del pane da Milano verso l’Adda, ormai fattasi notte, la paura che questo incominciò ad avere inoltrandosi in una stradina di campagna, in cui alla cultura dell’uomo si sostituiva piano piano la natura selvaggia e, infine, un bosco. Renzo cammina da un giorno intero, e continua a calcolare: riusciranno le sue gambe a raggiungere l’Adda prima di perdersi in mezzo a quegli alberi, o dovrebbe fermarsi e tornare “tra gli uomini”? Finalmente giunge alla riva del fiume, trova una capanna in cui poter dormire; e prima “di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato”, si inginocchia, e prega.


Come non pensare a questa scena, proprio oggi che per la prima volta, dopo due settimane passate rinchiuso in casa per via di una quarantena – durante la quale ho camminato soltanto insieme ai personaggi sulle pagine di carta –, sono uscito per una passeggiata? Ora che sono rientrato, scrivo ancora con le mani irrigidite dal freddo di fine gennaio.

    Aveva ragione Rousseau, che camminando si scuote un po’ dell’intorpidimento accumulato nei giorni. Tra le altre cose, infatti, pensando alla mia situazione presente, mi è venuta in mente mentre passeggiavo per la campagna, una frase letta chissà dove (dev'essere in Everlasting Man) di Chesterton: “…that the next best thing to being really

inside Christendom is to be really outside it.” Perché è un buon ritratto di ciò che sto passando io, in questo momento: sono tante le domande che continuo a pormi intorno a cosa significhi essere cristiano, specialmente di fronte alle prove di continua incapacità di esserlo in pratica, ad amare gli altri. Segrete sofferenze che a volte mi fanno sentire come una specie di dannato. 


Ma mi è venuta in mente, questa frase, anche per un’altra ragione. In periodi come questi, è bene fare qualcosa come ad esempio, immergersi in un libro, uno che porta lontano oppure risveglia qualcosa, un ricordo che non pensavamo essere così vicino – qualcosa soltanto per se stessi, insomma, ma nell’unico modo possibile ovvero qualcosa di completamente inutile, perché fa bene accettarsi di tanto in tanto come tali – inutili. 

       Ed è così, che – non aprendo una Bibbia, che giace muta sul mio comodino, ma uno spesso libro di Elsa Morante, La Storia, dedicato agli analfabeti, che mi sono imbattuto di nuovo in quella frase di Luca: “…hai nascosto  queste cose ai dotti e ai savi e le hai rivelate ai piccoli… perché cosí a te piacque.” Chi se l’aspettava? Camminando, pensavo a questo fatto: come si fa a seguire la Parola di Dio, se essa si serve, appunto, soltanto di parole, e solo della persuasione per convincerci? e non, come il resto del mondo, che è mosso dall’innegabile necessità delle cose? E ho avuto allora questo pensiero da piccoli: ovvero che, se potessi dirne qualcosa, la forza di Dio anche facesse uso delle sole parole, sarebbe ancora troppo potente. 


(2022)






*





Ci fermeremo prima

vicino alla superficie 

dei momenti passeggeri 

sopra le immagini 

dei passi o delle strade, 

sulle sagome che passano 

sui marciapiedi di una vita 

perché sono quattro 

non due la mani 

e i piedi, gli occhi 

come sono le parole 

che dici 

e i discorsi sempre ancora 

da finire


(febbraio 2022)






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