Mario Fresa intitola la sua nuova raccolta di poesie “Bestia divina”.
È molto
difficile che un titolo riesca a riassumere in maniera esaustiva – o quanto
meno calzante – un lavoro poetico. Di solito esso non suggerisce altro che un
indizio, una delle chiavi di lettura possibili, una traccia compendiaria, che
tuttavia non è mai pienamente rispondente all’intero lavoro.
In
questo caso, il titolo ossimorico che Mario sceglie per il suo libro è
straordinariamente preciso, se non altro nella descrizione della sua
ispirazione generatrice.
In
questa raccolta, la scintilla che innesca la forza poetica è uno schianto:
nelle pagine la realtà si consuma senza che essa possa essere in alcun modo
interpretata. Ne viene fuori la condizione eterna dell’uomo, completamente
esposto agli accadimenti, solo ed incapace di leggerli e di comunicarli. Ho provato
una strana forma di piacere a trovare in queste pagine una tanto familiare
confusione. La precisione descrittiva della condizione umana, ottenuta non
tanto con similitudini e metafore, quanto con una devastante ed impietosa
immersione nel caotico vero, ottiene un primo risultato indiretto: un
“ridimensionamento” dell’umana facoltà. Immersi in una realtà ormai guastata
dalla retorica e dalla finzione delle immagini, questa rincuorante operazione
linguistica sembra finalmente parlarci di qualcosa di autentico privo di
sofisticazioni.
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