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Rita Stanzione Canti di carta
Poesie – Il filo dei versi, Fara Editore, 2017
Questa raccolta si è classificata II ex aequo alla I edizione del concorso riservato a raccolte poetiche “Versi con-giurati”, con il coinvolgimento dei giurati stessi, oltre che in qualità di giudici, anche in qualità di poeti (essi infatti donano, al vincitore da loro votato, un’opera inedita che trovate in appendice al libro). Ecco le motivazioni critiche:
Pare esserci, discreta eppure inconfondibile, la voce della distanza in questa silloge, quasi si volesse ricollegare la trama disfatta, il disegno strampalato che, fuori da ogni garbuglio, si mostra per quell’assenza di ordine che è. Ricollegare attraverso la memoria, attraverso la parola, non certo riannodando legacci causali; ricollegare attraverso gli sguardi le ombre dei nostri passaggi “negli enigmi dei lampi / prima della pioggia”. (Alberto Trentin)
Amore e poesia, l’andirivieni dell’anima dall’infinito al quotidiano, dalla luce del sole alla lampadina potremmo dire assieme alla poetessa ed è proprio in e di questi elementi che le poesie della silloge Canti di carta trovano l’humus della propria ispirazione. La poesia usata come chiave di lettura della realtà e scandaglio, per la sua capacità/possibilità di “insinuarsi tra il tempo e l’essere”, dell’effetto che la realtà ha sul nostro animo. E il tempo appare con un volto duplice: come nemico e come alleato, che si lascia trasformare in “sillabe impagliate” là dove anche l’aggettivo nella sua doppia accezione di protezione e di imbalsamazione ci conduce all’ambiguità dell’esistenza umana a cui la poesia cerca di dare luce.(Lucianna Argentino)
Ci sono versi di una precisione tale che sembrano adatti a vestire situazioni e momenti diversificati […] A partire dai versi d’apertura della bella lirica “Come la casa il volo e le stanze” dove si legge: “Abbiamo avuto poi/ certezze incrollabili come la casa/ il volo e ogni stanza” e, poco sotto, in una sorta di enigmatico svelamento che è approfondimento interiore: “Apparteniamo al filo/ del tempo perso nel tempo” […] silloge agevole, fresca, ricca di intenti personali, di immagini profonde e di sguardi verso un inconscio che non si manifesta in maniera così palese. Le ho considerate come tanti piccoli tasselli di un lento, eppure radicato, percorso di ricerca (ben più che di conoscenza), una sorta di itinerario intimo che scandaglia realtà e frangenti di essa, con il filtro di una vasta gamma di sentimenti. Molto bella e carica d’affetto è “Mille sguardi per entrare”, una sorta di “piccolo prontuario” d’uso della poesia o, ancor meglio, di saggio ragionato sulle modalità di “avvicinamento” a quello splendido codice comunicativo, empatico e solidale che è appunto il verso poetico. Si legge “Non riesce. Non riesce/ a entrare nella poesia./ Dice che è strana/ lontana dal linguaggio/ astrusa, chiusa, inconcludente”. Si tratta di versi che snocciolano una verità assoluta, diffusa ampiamente, tra coloro che, appunto, considerano la poesia come qualcosa di antipatico perché ostico, perché inavvicinabile, difficile da contestualizzare, comprendere, perché è un testo liquido e, in quanto tale, impossibile da afferrare completamente, da inquadrare, da guardare in forma fissa e incontrovertibile. La poesia, è appunto, l’esprimere quel che “non riesce” ad esser preso. Anche lo stesso Luzi (e con lui tutta la scuola post-ermetica) erano i vati del non-detto, i maestri dell’inesprimibile, eppure, in quel senso di vuoto, di stasi, di apparente nullezza, era contenuto il mondo della riflessione acuta, del compimento delle volontà, dell’assolutizzazione delle categorie logiche e morali. Molto bella anche “Qualcosa che non c’era” dove è bella l’isotopia della mancanza che si concretizza proseguendo nei versi: dal “tempo [che] è ombra di sé” sino al “vuoto” propriamente detto, in quanto tale perché non esprimibile diversamente, finanche la “aria smunta”, che dà il senso di corrosione e debolezza. L’apertura dell’ultima stanza è ricca e profonda, così completamente densa di materia che va cercata, ipercaricata e fatta propria: “coincidi con qualcosa che non c’era”. È un’immagine che non ha nulla del visionario ma che, al contrario, pone manifesto lo stato (momentaneo o no, non è dato sapere) di esilio dall’esistenza, di accorata lontananza da sé eppure di incipiente forza espressiva […] le forme che non hanno perso il loro limite (forme senza perimetro, potremmo dire) in chiave assurda ma al contempo estremamente iperreale, hanno in sé qualcosa di arcano e inspiegabile che, di fatto, non ne consente l’oblio della loro immanente presenza. (Dal commento di Lorenzo Spurio, presidente dell’Associazione Culturale Euterpe).
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