Marco Statzu, Erano lacrime mie, Graphe.it 2018
I tre versi che citiamo nel titolo di questa recensione sono l'incipit di Via verso casa (p. 62) e mi pare siano emblematici della poetica riflessivo-esistenziale di un autore che sa farsi In-contro (p. 57): “Mi vien voglia di fermare le persone che vedo, / (…) / strattonarle, e chieder loro: / Ma tu come vivi? / La senti questa vita? / Questo immenso silenzio che ci sovrasta?”
C'è un costante riferimento a una chiamata, a una vocazione che si purifica con passione (intendendo la parola anche nel senso etimologico di patimento, sofferenza): “È davvero un fuoco divorante / che annienta parole e pensieri / la tua Parola. / E predicarla è ancora più bruciante / tanto da essa son distante.” (Brucia il roveto, p. 53).
La raccolta è costellata di immagini di splendida e profonda confessione (agostinianamente intesa): “Il vento / ha condotto il deserto / alla mia oasi.” (p. 44); “Fu un bene, allora, che ci restassero ignoti / il peso e la fatica del futuro. / Non saremmo partiti per il viaggio.” (Sufficit diei malitia sua, p. 38); “Cerco ogni giorno di spietrare / il sagrato del mio cuore / per non cedere alla tentazione di lapidare qualcuno.” (Nessuno, Signore!, p. 30); “Non sanno gli insetti che s'agitano in aria / quale agguato in volo il ragno tende loro. // Neppure a chi ha ali / son risparmiati gli ostacoli.” (p. 28); “Parfois / je crains / le silence qui me pousse / à sortir du bruit.” (Tradurre in pazienza ogni buon desiderio, p. 27); “e non ho pregiudizi su nulla, / tranne su chi vuol mostrarmi / il già visto e il già fatto. / Io voglio vedere oltre.” (Scatenato, p. 24).
Queste “lacrime” di Marco Statzu concentrano visioni, riflettono con empatia la realtà, elaborano sentimenti, rapporti interepersonali ed eventi che producono tensioni intime e magari contraddittorie, a volte dolorosamente ustionanti nel rapporto col prossimo e con il Tu più alto, eppure feconde, perché generano quella umiltà assoluta indispensabile all'amore gratuito: “Mi son chiesto sovente / come s'impara a leggere gli eventi. / Devo invece spesso rassegnarmi / a osservare le figure.” (Abbecedario, p. 19); “Il mistero nascosto / custodisci fedelmente. / Sviscerandolo lo abortiresti. / E i calci e le nausee che soffri / te lo fan sentire e conoscere / come nessun medico può fare: / vivace e vivo e intimo / respiro al tuo respiro.” (Et Verbum caro, p. 15); “Tu / risparmia al tuo servo il giudizio. / Chiamami / e colmami di tua gratitudine.” (Chiamami, p. 14).
Come osserva nella partecipe Prefazione Enzo Bianchi: “La fede silenziosa, discreta, cabarbiamente cercata, nella vita, negli altri, nel Signore è il legame profondo di tutta la raccolta” (p. 7).
Abbiamo ripercorso al contrario questa raccolta, perché la poesia consente la massima libertà di lettura e anche perché ogni cammino di fede è un sentirsi chiamati da sempre, un percepire un senso, durante il nostro tortuoso andare, come se fossimo già oltre il presente a con-siderare, “tra disastri e desideri”, il cammino di ieri e di oggi.
I tre versi che citiamo nel titolo di questa recensione sono l'incipit di Via verso casa (p. 62) e mi pare siano emblematici della poetica riflessivo-esistenziale di un autore che sa farsi In-contro (p. 57): “Mi vien voglia di fermare le persone che vedo, / (…) / strattonarle, e chieder loro: / Ma tu come vivi? / La senti questa vita? / Questo immenso silenzio che ci sovrasta?”
C'è un costante riferimento a una chiamata, a una vocazione che si purifica con passione (intendendo la parola anche nel senso etimologico di patimento, sofferenza): “È davvero un fuoco divorante / che annienta parole e pensieri / la tua Parola. / E predicarla è ancora più bruciante / tanto da essa son distante.” (Brucia il roveto, p. 53).
La raccolta è costellata di immagini di splendida e profonda confessione (agostinianamente intesa): “Il vento / ha condotto il deserto / alla mia oasi.” (p. 44); “Fu un bene, allora, che ci restassero ignoti / il peso e la fatica del futuro. / Non saremmo partiti per il viaggio.” (Sufficit diei malitia sua, p. 38); “Cerco ogni giorno di spietrare / il sagrato del mio cuore / per non cedere alla tentazione di lapidare qualcuno.” (Nessuno, Signore!, p. 30); “Non sanno gli insetti che s'agitano in aria / quale agguato in volo il ragno tende loro. // Neppure a chi ha ali / son risparmiati gli ostacoli.” (p. 28); “Parfois / je crains / le silence qui me pousse / à sortir du bruit.” (Tradurre in pazienza ogni buon desiderio, p. 27); “e non ho pregiudizi su nulla, / tranne su chi vuol mostrarmi / il già visto e il già fatto. / Io voglio vedere oltre.” (Scatenato, p. 24).
Queste “lacrime” di Marco Statzu concentrano visioni, riflettono con empatia la realtà, elaborano sentimenti, rapporti interepersonali ed eventi che producono tensioni intime e magari contraddittorie, a volte dolorosamente ustionanti nel rapporto col prossimo e con il Tu più alto, eppure feconde, perché generano quella umiltà assoluta indispensabile all'amore gratuito: “Mi son chiesto sovente / come s'impara a leggere gli eventi. / Devo invece spesso rassegnarmi / a osservare le figure.” (Abbecedario, p. 19); “Il mistero nascosto / custodisci fedelmente. / Sviscerandolo lo abortiresti. / E i calci e le nausee che soffri / te lo fan sentire e conoscere / come nessun medico può fare: / vivace e vivo e intimo / respiro al tuo respiro.” (Et Verbum caro, p. 15); “Tu / risparmia al tuo servo il giudizio. / Chiamami / e colmami di tua gratitudine.” (Chiamami, p. 14).
Come osserva nella partecipe Prefazione Enzo Bianchi: “La fede silenziosa, discreta, cabarbiamente cercata, nella vita, negli altri, nel Signore è il legame profondo di tutta la raccolta” (p. 7).
Abbiamo ripercorso al contrario questa raccolta, perché la poesia consente la massima libertà di lettura e anche perché ogni cammino di fede è un sentirsi chiamati da sempre, un percepire un senso, durante il nostro tortuoso andare, come se fossimo già oltre il presente a con-siderare, “tra disastri e desideri”, il cammino di ieri e di oggi.
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