lunedì 11 giugno 2018

Due voci soliste in un coro per avvicinarsi al tema del perdono

Massimiliano Bardotti e Stefano Cavallaro: “Sorgere nel deserto / Fratello, perdonami”, in Perdono: dal rancore al ricordo, a cura di A. Ramberti, Fara 2017
recensione di Vincenzo D'Alessio



Le Antologie poetiche quando si presentano ai lettori somigliano ad un coro di voci intonate sul brano da eseguire ma ognuna scelta per le varianti che le corde vocali presentano.
I cori hanno una valenza apotropaica antichissima, specialmente nel teatro. Quelli che mi emozionano sono diretti dal maestro Ennio Morricone per l’uso appropriato del primo strumento conosciuto dal genere umano: la voce modulata nella sua polifonia, poi l’accostamento dell’oboe: strumento che si accosta alla stessa voce umana: in archeologia il primo flauto che la storia dell’Umanità conosce è stato ricavato in periodo preistorico (circa 35.000 B.P.) da un osso di avvoltoio.
Ebbene, come in un coro, due voci soliste si affacciano dall’Antologia curata da Alessandro Ramberti dal titolo 
Perdono: dal rancore al ricordo, FaraEditore 2017, e sono quelle di Massimiliano Bardotti e Stefano Cavallaro.
Stefano Cavallaro affronta il tema guida del perdono in tre movimenti: “Il monumento”, “la difesa” e “la fioritura” il brano completo reca il titolo: “Sorgere nel deserto”.
Nel primo movimento la sabbia del deserto viene paragonata alla moltitudine umana: prende vita nella debolezza di un attimo d’amore: “(…) Meriti consapevolezze e fusa / in ardore di sensi / (…) Quel minuscolo respiro / che dà la vita” (pag. 195).
Nel secondo movimento il far parte dell’umanità diviene nella crescita coscienza di se stesso: “(…) A me, irrealizzabile / A me, festa della terra / (…) Percorro con il respiro / ogni via lasciata libera / dal battito dell’umano” (pag. 196).
Nel terzo movimento la strada che si intraprende nell’esistenza: “(…) Giullare diffamante: / nel cuore una conchiglia / che rispecchia il passato (…) Siamo nello stesso gesto risucchiati / ci stringiamo / la mano / per evitare la dissolvenza / di ogni emozione / fraterna.”(pag. 198).
Stefano Cavallaro affida la personale filosofia del perdono all’uso di versi brevi e taglienti, sostenuti dall’enjambement e dalle anafore, con qualche breve concessione alla rima alternata.
Perdono di essere vivi, nel viaggio si associa “la conchiglia” che rammenta il viaggio da (sé stessi) e verso(quello reale) il Santuario di San Giacomo de Compostela alla ricerca della fatidica risposta alla nostra breve permanenza nell’esistenza globale: “(…) Non ti vedo più, / rimbombi / Duomi di fiori sorgere nel deserto.” (pag. 199).
La voce seguente del duo è quella di Massimiliano Bardotti che accoglie il tema del perdono nell’invocazione: “Fratello, perdonami”.
L’ascesa verso la purificazione viene affidata ad una poesia/ preghiera che rammenta la strada intrapresa dai fratelli buddisti per raggiungere l’illuminazione (il risveglio), il tempio del proprio spirito che si unisce all’ energia dell’Universo.
La protasi utilizzata è quella dell’Amore ( nella parola “fratello”) che dovrebbe contenere l’energia che muove tutte le esistenze, che protegge i deboli, che indica ai potenti le strade da seguire per contenere violenze e usurpazioni, che indica ai filosofi l’eterodosso significato del silenzio che avvalora il permanere dell’Idea nello spazio e nel tempo.
“Fratello” è ripresa come anafora per accendere il dialogo con i lettori.
L’invocazione viene rivolta a Colui che si è fatto uomo per cancellare l’energia del “peccato originale” e accendere la fiaccola della vera speranza che guida l’umanità verso la salvezza già su questa terra: “Accolgo il dono che in terra lasciasti / «Vi lascio la pace vi do la mia pace» / (…) da questa noia feroce ch’è il mondo / ch’è questo frammento d’un tutto infinito / che chiami realismo, che chiami realtà.” (pag. 201).
Si rinnova il senso filosofico nei versi lasciatoci da Giacomo Leopardi (vedi L’infinito) o da Giovanni Pascoli (Dieci agosto) nei secoli precedenti, voce che apre “il solco”, invocato da Bardotti; solco che accoglie le nostre paure di fronte alle sofferenze; all’innocenza tradita che diviene disperazione; al corpo a corpo combattuto quotidianamente con la nostra mente per redimere il fine vita: “(…) smarrito sulla via che va a morire / sulla via del mistero insoluto / che sempre rimane ai vivi irrisolto.”(pag. 202) .
Una buona prestazione a due voci, nella polifonia dei versi, per avvicinarsi al tema del perdono, del perdonare a sé stessi, dell’andare incontro attraverso l’invito di queste voci come l’invito rivolto dal missionario francese Jean Debruynne: “Vivere non è incastrato / fra «Nascere» e «Morire». / Ne è il frutto.” (da Vivre, San Paolo 1984).

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