Mario Fresa ha tradotto, di recente, una scelta di dodici poesie tratte dai Fiori del Male di Charles Baudelaire. |
Intervista a cura
di Raffaele Piazza
di Raffaele Piazza
La poesia va letta necessariamente nella lingua in
cui è stata scritta?
Sì, a dispetto
di tutti i traduttori. Dico, anzi, paradossalmente, che si dovrebbe, almeno per
gioco, leggere una poesia così com’è stata scritta perfino se non si conosce,
nemmeno alla lontana, la sua lingua di origine. (Ma se pure si parlasse o si scrivesse
quella lingua straniera o sconosciuta così come la lingua che naturalmente noi
parliamo o scriviamo, non si potrebbe mai comprendere a fondo una poesia: ché ogni
lingua, e in ispecie ogni lingua poetica, è una realtà a sé stante ch’è fondata
sui propri infìdi intoppi e sulle proprie specifiche, strategiche mancanze, o
ricchezze: e quando poi v’inciampi dentro, di’, come potrai sperare di uscirne
fuori?). In ogni caso: se proprio traduzione ci dev’essere, il lettore dovrebbe
impegnarsi ad affrontare personalmente
l’a corpo a corpo col testo originale; dovrebbe, dunque, tentare di tradurre da
sé stesso il testo, rinunciando alle stampelle posticce di un altro commentatore-interprete.
Ogni lettore di poesia può esser visto, allora, come un possibile traduttore? Troppa
ὕβϱις, per caso? E perché no? Un lettore di poesia che voglia davvero essere
tale è sempre una specie di semifolle (è uno, per intenderci, che vuol cercare
soluzioni o schiarimenti da chi si esprime per iperboli e straparla: perché il
poeta è un medico, alla fine, che resulta più matto del malato). E allora,
perché non andare fino in fondo? Perché non essere folli integralmente,
identificandoci con colui che scrive e con ciò che si legge, cercando un’alchìmia, una
stregata soluzione che possa trasformare una certa parola in un’altra parola,
rigenerando la sua medesima forza, la sua stessa carica estrema di energia e di
vita?
Senza essere, in ciò, “aiutato” dal traduttore?
Ciascun lettore,
ricordiamolo, è solo. È solo contro sé stesso e contro il testo: e dovrebbe rinunciare,
con una certa dose di coraggio, e con un po’ di sana (e insana) sfrontatezza,
ad altri apparati “esterni” (del curatore, del chiosatore e del traduttore) e
studiare la lingua personale dell’autore,
scandagliandone gli sconfinati paesaggi che l’hanno resa così ambigua, così altra, così difficile (perché ospitale
e inospitale insieme).
Per un poeta, lavorare anche da traduttore può
essere un elemento positivo per ampliare la propria coscienza letteraria o può
diventare una sorta di arma a doppio taglio?
Ogni traduttore
sentirà di aver guadagnato un po’ di maggiore conoscenza dell’opera studiata,
ma avvertirà una distanza ancor più profonda tra sé e la lingua rincorsa. Alla
fine, se sarà saggio, metterà da parte i propri calchi, le proprie imitazioni e
tornerà agli originali; e poi, daccapo, vorrà di nuovo interrogarli, provando
nuovamente a ritradurre ogni parola ogni verso ogni strofa. Così, all’infinito.
Una traduzione la s’inizia e non la si conclude mai veramente: essa rimane un
gioco del quale si conosce la partenza e mai la conclusione. Il procedimento del
suo lavoro è assai vicino a quello di un attore: non soltanto in virtù di una specifica e
comune propensione al mimetismo e alla drammatizzazione mimetica; ma anche
perché, nell’indossare più volte una maschera e nel provare di continuo, ogni
sera, le medesime battute, l'attore cambierà sempre tono, colore, timbro, fraseggio
(anche in un modo, forse, non del tutto volontario); e i versi o le battute gli
parranno di nuovo nati, o nati appunto in quel preciso istante, e dunque nuovi
e inconosciuti (e degnissimi, perciò, d’essere amati, d’essere scoperti).
Credi che, in qualche caso, sia pure raro, una
traduzione poetica compiuta magistralmente possa superare per bellezza, almeno
in uno o più dei suoi passaggi, quella del testo originario?
No, ma certe
soluzioni geniali restano impresse: penso all’intelligenza minacciosa delle Amœnitates belgicæ reinterpretate da Franco
Fortini, o alla leggera, verticale, violinistica versione caproniana di certi
versi di Apollinaire; penso, ancora, alla energia solenne e disperata (in certi
punti più violenta dell’originale) della poesia The Tyger di Blake nella traduzione di Guido Ceronetti. Ma sono casi,
certo, assai rari che, solo per qualche istante, quasi ti fanno dimenticare che
lì, con te, non parlano mica Apollinaire o Baudelaire o Blake: ma nobili impostori
che si travestono delle altrui spoglie, fingendo con noi di essere altro, e di parlare con una nuova voce (e
non è quello che fa un poeta, sempre? Al di là, dico, del tradurre? E cioè
mutare, nello spazio di un breve testo, la propria vita e la propria identità?
Nascondere sé stesso e giocare ad essere un altro, e un altro, e un altro
ancora? Dimenticarsi di sé, del proprio nome?).