Vera Lúcia de Oliveira: Ditelo a mia madre, FaraEditore 2017
recensione di Vincenzo D’Alessio
Nella collana Il filo dei versi delle Edizioni Fara di Rimini è stata pubblicata quest’anno la raccolta poetica di Vera Lúcia de Oliveira: Ditelo a mia madre con la postfazione della poetessa Prisca Augustoni. Scorrendo le pagine di questa raccolta mi sono chiesto più volte: perché farsi carico del dolore tremendo della morte di un figlio?
Vera Lúcia de Olivera non è un famigliare di Giulio REGENI, scomparso prematuramente il 25 gennaio dello scorso anno in Egitto, perché sentirsi parte di quest’immane tragedia che ancora non ha trovato risposte?
Perdere un figlio è un Calvario del quale non si vedrà mai la cima. Il popolo turco quando voleva infliggere una maledizione ai propri nemici ripeteva: “Possa tu vivere più dei tuoi figli!”
Scrive l’autrice nel secondo canto di questa raccolta: “andate a dire a mia madre / che non ho mai perso il senso / dell’amore”.
Il filo conduttore della raccolta è tutto qui: calarsi nelle carni della madre di Giulio REGENI attraverso codici semantici, la creazione dei versi: Poiein che veste la tragedia trasformandola in canto per le orecchie dei secoli.
Riesco solo per poco, leggendo i brevi corpi poetici, a dare una parvenza di serenità all’infinito dramma che i genitori, di quel giovane massacrato, porteranno dentro come un male oscuro, autentico e inalterabile: non un ricordo ma la memoria lancinante che separa i vivi dai morti.
Rivedo, nelle mani della de Oliveira, le mani tremanti del grande poeta Giuseppe UNGARETTI privato dell’amore del figlio Antonietto, perso a soli nove anni, che segnerà la nascita della raccolta poetica Il dolore del 1947, dalla quale traggo questi versi: “(…) Mai, non saprete mai come illumina / L’ombra che mi si pone a lato, timida / Quando non spero più…”
La forza costruttiva dell’anafora interna al verso dà il senso del dolore invincibile.
Mi viene da pensare che anche per la nostra poeta l’ombra di Giulio l’abbia illuminata nel momento creativo di questa raccolta, ponendola nella condizione di familiarità: “Eppure, bisogna varcare quella porta, entrarci, bisogna abbracciare e piangere su quei corpi piagati, bisogna tenerli stretti, cullarli” (pag. 63).
Ditelo alla madre di REGENI che ha l’abbraccio dell’Universo, al quale suo figlio oggi appartiene.
recensione di Vincenzo D’Alessio
Nella collana Il filo dei versi delle Edizioni Fara di Rimini è stata pubblicata quest’anno la raccolta poetica di Vera Lúcia de Oliveira: Ditelo a mia madre con la postfazione della poetessa Prisca Augustoni. Scorrendo le pagine di questa raccolta mi sono chiesto più volte: perché farsi carico del dolore tremendo della morte di un figlio?
Vera Lúcia de Olivera non è un famigliare di Giulio REGENI, scomparso prematuramente il 25 gennaio dello scorso anno in Egitto, perché sentirsi parte di quest’immane tragedia che ancora non ha trovato risposte?
Perdere un figlio è un Calvario del quale non si vedrà mai la cima. Il popolo turco quando voleva infliggere una maledizione ai propri nemici ripeteva: “Possa tu vivere più dei tuoi figli!”
Scrive l’autrice nel secondo canto di questa raccolta: “andate a dire a mia madre / che non ho mai perso il senso / dell’amore”.
Il filo conduttore della raccolta è tutto qui: calarsi nelle carni della madre di Giulio REGENI attraverso codici semantici, la creazione dei versi: Poiein che veste la tragedia trasformandola in canto per le orecchie dei secoli.
Riesco solo per poco, leggendo i brevi corpi poetici, a dare una parvenza di serenità all’infinito dramma che i genitori, di quel giovane massacrato, porteranno dentro come un male oscuro, autentico e inalterabile: non un ricordo ma la memoria lancinante che separa i vivi dai morti.
Rivedo, nelle mani della de Oliveira, le mani tremanti del grande poeta Giuseppe UNGARETTI privato dell’amore del figlio Antonietto, perso a soli nove anni, che segnerà la nascita della raccolta poetica Il dolore del 1947, dalla quale traggo questi versi: “(…) Mai, non saprete mai come illumina / L’ombra che mi si pone a lato, timida / Quando non spero più…”
La forza costruttiva dell’anafora interna al verso dà il senso del dolore invincibile.
Mi viene da pensare che anche per la nostra poeta l’ombra di Giulio l’abbia illuminata nel momento creativo di questa raccolta, ponendola nella condizione di familiarità: “Eppure, bisogna varcare quella porta, entrarci, bisogna abbracciare e piangere su quei corpi piagati, bisogna tenerli stretti, cullarli” (pag. 63).
Ditelo alla madre di REGENI che ha l’abbraccio dell’Universo, al quale suo figlio oggi appartiene.
Nessun commento:
Posta un commento