Angela Caccia, Piccoli forse, Lieto Colle, “Collana Blu”,
2017, pp. 88
recensione di AR
“… mi abituo / a declinare la parola morte, denominatore / che non fa sconti a chi resta) // non
chiedermi il perché / di questi adombramenti / il vento – a volte – ha carezze
tristi” (p. 16). Se la morte, come ci ricorda Leopardi nelle Operette morali, è “nemica capitale
della memoria” eppure ha care la Rime
del Petrarca, trovandovi il suo Trionfo, la nostra vita – mutevole e precaria
in vario grado e comunque a scadenza – non può che veleggiare umanamente in
bilico fra essere e non essere (si veda la precedente raccolta Il tocco abarico del dubbio) e fare del “forse” una strategia di sopravvivenza. Certo rimane
sempre aperta la prospettiva della fede, che ingloba l’incertezza e dà sostanza
alla speranza, ma Angela Caccia sa ben essere ancorata anche alla quotidianità, con
le sue fatiche (“… si viaggia tutti / con un’Itaca nel cuore e il puzzo / di un
incendio domato addosso”, p. 34), le sue svolte inattese se non incredibili/incomprensibili
(anche in senso positivo), le sue domande eterne che rimangono razionalmente
senza risposta, se non appunto dubitativa o contraddittoria: “(quale dose di
distrazione è concessa / perché il peccato si chiami buona fede?)”, p. 56; “e
chissà se le stelle profilerebbero / il tuo volto se le legassi / con un tratto
di matita”, p. 58; “i sogni, solo nuvole che s’azzuffano / – la realtà è da
sempre dissidente – / ma non sarà un sogno a dilaniarti, / piuttosto il non crederci
fino in fondo”, p. 73.
Quattro è il numero della stabilità, quattro sono le sezioni
(i punti di vista) che compongono questa raccolta (“Dalla torre campanaria”,
“Dal grande terrazzo”, “Dalle sughere e dalle pietre”, “Da una casa
sull’albero”), eppure il titolo esprime una sofferta leggerezza che prende atto dell’impermanenza, della possibilità,
del mutamento, della trasformazione: “ci sarai anche tu che / portavi la
tramontana da fuori, / e ghiacciavi le parole – accucciate, / nella bocca, tra
loro – e m’abbracciavi / (…) / perché fossimo in due / a reggere l’inverno dai
vetri” (p. 78).
I “forse” sono una modalità per ampliare lo spazio, a volte
assai ristretto e pesantemente condizionato, della nostra libertà. Sono “forse” piccoli, modesti,
che desiderano insinuarsi con una ironia sempre sottotraccia negli interstizi
di una condizione umana non priva di muri, limiti, seduzioni perniciose come il
canto delle sirene… ma forse (e uso anch’io questo avverbio del resto così caro
anche al mio conterraneo Renato Serra) più che il tema del ritorno di cui parla
nella suggestiva prefazione Davide Rondoni (che nei piccoli forse di Angela Caccia vede giustamente “segnali della
infinita possibilità della vita”, p. 11), più che il tema del ritorno, dicevo, penso che il leitmotiv
di questo libro sia quello della ricomposizione sempre in fieri e sempre in
gioco del nostro essere, del nostro luogo nel mondo, del nostro cuore, dei
nostri pensieri che tendono alla dispersione: “nel legno riposerà la forma / ma
è nella carne / che si agita il demone // convincerlo che ogni sogno / si paga a piccole rate è solo / un
tentativo di convivenza” (p. 64). Sì perché ciascuno di noi ha il proprio
demone, le proprie paure inconsce da accogliere ed elaborare, le proprie ferite
visibili e invisibili da curare, i propri vuoti da colmare… c’è sempre una
tensione fra abbandono e resistenza, cerchiamo costantemente di ri-trovarci
nonostante le frammentazioni fisiche e relazionali, il naturale decomporsi del
nostro organismo, l’inevitabile trasformazione dell’ambiente naturale e
antropico in cui viviamo. Sentiamo però nell’anima (e il poeta e il santo lo
sentono con una intensità assoluta) che non tutto andrà perduto, che siamo
destinati a ricomporci e che se qualcosa ci spinge a distruggere abbiamo pur
sempre la libertà della misericordia che ci spinge a prenderci cura, a
spenderci per contrastare il male e rendere possibile l’azione benefica
dell’amore. Certo abbiamo bisogno
di un soccorso dall’alto che ci faccia sentire amati e preziosi per come siamo
e ci proietti oltre la nostra solitudine e valorizzi le nostre crepe che sono
le ferite necessarie all’azione della grazia: “è una ferita la bellezza / che
non si infilza sul foglio / un dolore acuto e gustoso/ in cui l’io – felice – si dibatte” (p. 44); “sei
questo pugno di buona semenza / che mi cade dentro / alla rinfusa” (p. 52); “fulminea
bruciante / un’incisione a crudo / – allargassi lo spiraglio / mi vedrei
franare / a piccoli pezzi – / e sto qui / con la maschera più bella” (p. 63).
La poesia di Angela Caccia è musica visiva, scavo del corpo,
condivisione di anima, sguardo sonoro che ci immerge nel creato e ne rivela il
mistero dolente eppure meraviglioso perché è proprio nel punctum esiziale che possiamo aprirci alla salvezza (o più
laicamente all’assoluto, all’infinito): “chiodi le stelle / reggono a stento /
una notte altrimenti / in predicato di cadere” (p. 65); “oggi sto nei bordi del
mio corpo / – braccia conserte, la parola / lucida e ferma, buona solo a /
macchiare il foglio / ma più di me / conosce il centro / della ferita / e tace”
(p. 71).
Nessun commento:
Posta un commento