Sono contento di
poter parlare qui dell’ultimo libro di poesia di Gladys proprio in questo mese
di dicembre, che vede il compleanno (importante) della nostra festeggiata, e
che per una coincidenza (o congiuntura, non so se astrale) davvero inaspettata è
anche il mese in cui ci sarebbe stato il compleanno di mio padre, il centesimo –
12 dicembre 1915, 12 dicembre 2015 –. E così lo posso ricordare per un momento –
permettetemelo – proprio in queste aule dell’Università per Stranieri in cui
per tanti anni è stato docente e in cui ha dato così tanto di sé. Ma io vorrei
ricordarlo soprattutto, poiché questa sera parliamo di poesia – grazie a Gladys –, come poeta: un poeta del Novecento italiano, coetaneo (più o meno) di Mario Luzi e di Giorgio Caproni, con il segno profondo della lezione di Montale.
Ma è anche con
commozione che ricordo che al mio posto, per presentare un precedente libro di
Gladys, sedeva la nostra amica poetessa Brunella Bruschi, che ha avuto per la
poesia di Gladys parole magnifiche, che non saprò ripetere. Qualche giorno fa c’è
stata, nel Liceo nel quale Brunella aveva insegnato, una bella commemorazione
con i suoi colleghi e ex alunni. È stata letta una scelta assai puntuale e
coinvolgente delle sue poesie, credo che a Brunella avrebbe fatto piacere. E
qui, nel libro di Gladys, ci sono due poesie a lei dedicate, che spero Gladys
vorrà poi leggerci. Ma non vorrei intristirvi – intristirci – troppo,
ricordando chi non c’è più: e proprio nel momento in cui festeggiamo la nascita
di una cosa nuova, che viene comunque ad allietarci, come il nuovo libro di
Gladys, le sue nuove poesie. Il fatto è che la poesia, e un incontro attorno
alla poesia, sembra essere – come anche questo momento dimostra – una delle
possibili realizzazioni (non dico l’unica) di quella compresenza dei morti e
dei viventi che Aldo Capitini ci ha indicato. E lo dico in un modo semplice,
come so dirlo io, anche se so che con il titolo capitiniano si tocca un
complesso filosofico-religioso non semplice: noi abbiamo bisogno della
compresenza dei morti e dei viventi. Perché nessuno che è nato può andare sprecato: nessuno che è stato padre o madre o
figlio di qualcuno, data l’infelicità – in generale – della nostra condizione,
il “basso stato e frale” di cui ci dice Leopardi nella Ginestra. Non possiamo
sprecare neanche un frammento di questa possibile produzione corale di valori,
altrimenti rischiamo che davvero non ha più senso niente. E allora ricordiamo
ancora una volta lo splendido epilogo del Colloquio
corale di Capitini, che della Compresenza è insieme l’anticipazione lirica
e l’espressione più radicale e commossa:
Buona notte ad amici e ad ignoti,
ai morti riveduti nel lampo della festa:
come ognuno ama in atto tutti,
così tutti il sonno unisca, disceso senza lotta:
entriamo pacati nella notte grati alla festa,
dopo esserci aperti a lei.
Basterebbe
sostituire la parola “festa” (i morti riveduti nel lampo della festa) con la
parola “vita” (e, in subordine, con la parola “poesia”) per ritrovare nella
poesia di Gladys, e in particolare in questo suo ultimo libro, lo stesso
accento di autenticità, e una forma assai simile di spiritualità (alla fine del
libro di Gladys, nella postfazione, Ramberti parla di “spiritualità laica”, e
credo che abbia ragione. Anche se la lettura delle poesie, specialmente della
sezione intitolata “Oltre l’immagine”, fa talvolta pensare a una incipiente – o
forse da sempre latente, non so – sensibilità di tipo religioso).
È in
particolare nella prima parte del libro (intitolata “I volti dell’amore”) che
un’idea – o meglio: un sentimento - di compresenza attiva, viva, produttiva di
valori trova il suo luogo privilegiato. E da lì si irradia su tutto il resto
del libro, dandogli il suo senso più profondo e compiuto. Lo coglie benissimo
il prefatore, l’ottimo esegeta della poesia di Gladys, Antonio Melis, quando
dice che la tessitura poetica di Gladys “riesce in primo luogo a conservare la
memoria, che trasforma anche l’assenza in una presenza”. Il critico Melis
accompagna la poesia di Gladys dal 2003, se non sbaglio, da Acquaforte, fino ad oggi, cioè per tutta
la fase in cui si dispiega la piena maturità artistica di Gladys: le sue
prefazioni, finissime e puntuali, insieme all’accuratezza tipografica garantita
dall’Editore Fara, con le sue belle copertine, sono un sicuro valore aggiunto
alla già così valorosa produzione poetica della nostra autrice. Se prendiamo
per esempio la Prefazione al libro Oceano di luce, del 2013, intitolata – leopardianamente – “Piacer figlio d’affanno”
noi troviamo già tanti elementi critici utili alla comprensione di quest’ultimo
tratto della poetica di Gladys, fino al nostro libro di oggi: tutti ricordiamo
la poesia di Leopardi La quiete dopo la tempesta – la scuola almeno in questo
una piccola parte positiva l’ha svolta -, da cui è tratto appunto il verso “Piacer
figlio d’affanno”. La tesi è che l’unico piacere che ci è dato è la fine
(temporanea) – meglio, l’interruzione – di un dolore, o di un’ansia. L’allentamento
di uno spasimo (“uscir di pena è diletto tra noi”). Così, terminata la
tempesta, con tutto il suo carico d’angoscia, il villaggio torna a rivivere, in
una sorta di (illusoria) euforia (illusoria, e per questo tanto più
commovente). Conosciamo la conclusione di Leopardi: la valorizzazione della
morte quale estremo risanamento da ogni nostro dolore. Ecco, Melis rileva
giustamente come la luce – presenza
così significativa nella poesia di Gladys – nasca paradossalmente dall’ombra: “solo
l’esperienza profonda del dolore – lui dice – permette di godere pienamente
della realtà recuperata dopo l’eclissi”. E però la conclusione tragica di
Leopardi non appartiene a Gladys. Vince la vita e la sua è una poesia in piena
luce (luce e vita è un’endiadi tipica di Gladys): “a dispetto di tutto /
celebrare la vita” è l’imperativo poetico che lei si dà, e in questa luce anche la “tenebra” appare come un
dono, per il quale dobbiamo gratitudine (vedi Epifania del dono e Il verbo,
nella sezione forse più impegnativa del libro). Il “motore” – se così posso
dire – di questa espansione valoriale così feconda è, come si diceva, nella
prima parte del libro, dove si svolge una trama memoriale e affettiva che “trasforma
anche l’assenza in una presenza” (ricordate): ma io direi meglio, a questo
punto, per tirare le fila del
nostro discorso, in una compresenza.
La poetessa coglie i suoni del mondo intorno a sé come una minaccia, ma (dice) “la
loro (dei 'morti amati') – la loro presenza è nel cuore”, e non è soltanto un
conforto, come lei dice, ma – credo – qualcosa di più: è quello che, in
definitiva, dà valore al nostro essere (e forse sì, in questo senso, ci “conforta”). È la poesia degli affetti familiari e amicali, anche dell’amicizia poetica,
per le amiche e gli amici poeti, accomunati da una stessa tenace fiducia nella
poesia (e noi lettori risentiamo nel cuore l’eco del bellissimo dantesco “Guido,
i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento…”). Ma non è
solo un canzoniere privato, si apre naturalmente
a una dimensione più ampia, se in uno di questi testi (Madre lingua, dove
davvero la lingua è madre) noi troviamo un omaggio accorato alla lingua andina
e agli accenti dell’Amazzonia, e dunque a popoli testimoni di una storia di
sconfitta e annichilimento, a cui la poesia può ora dare almeno un piccolo
risarcimento. E questa tematica (qui ancora implicita, avvolta nell’intimità
dei ricordi più cari) si allarga poi in particolare nelle ultime due sezioni
del libro – di cui la prima si intitola significativamente “Voci del dolore” –
a raccogliere “l’amaro cantico della desolazione” – come dice un verso – nella
condizione disperata dei profughi e dei perseguitati. Qui vediamo riaffiorare
(proprio come dai flutti dei naufragi di migranti) l’antica – ormai – militanza
di questa donna radicalmente pacifista (ci ricordiamo delle “donne in nero”),
dalla parte sempre dei popoli oppressi e degli esuli. Che è la stessa cosa della sua poesia fiera e
generosa, solo che grazie alla poesia la militanza/testimonianza trova le
parole più commoventi e più persuasive, su di un piano che ci restituisce l’universalità
del male o della fatica di vivere. Ma anche del riscatto. È sempre così,
quando si tratta di vera poesia. Sentite (p. 119, Pratica dell’amore) :
PRATICA DELL’AMORE
l’assidua pratica dell’amore amico
nutre la nostra fede quotidiana
l’impegno spirituale in pro del discernimento
e dello slancio per affrontare l’oscuro potere
e la crudeltà del male
alleniamoci ogni giorno con fervore
preghiera o meditazione
e soprattutto azione a favore della vita
e non solo nostra
anche della vita e della cura del cosmo
e d’ogni essere vivente
perciò siamo ancora in vita
amare e dare sono
il senso della vita
A Fabio Saini
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