recensione di AR
Dico subito che questo è uno dei più veri e toccanti libri di poesia che mi sia “capitato” di leggere in questo nuovo millennio, anzi di gustare e assaporare, lasciando che i versi scendessero e nutrissero anche i luoghi di risonanza più umili e nascosti, che sono poi quelli che testimoniano la nostra umanità, suscitano le nostre più autentiche emozioni, rivelano le nostre ferite ed emanano la nostra luce.
I volti, le voci, i
gesti, i comportamenti degli avventori ci scorrono davanti agli occhi come
fossimo noi stessi dentro il “posto” di lavoro della cassiera/poetessa
Lucianna. Ciascuna “storia” si imprime anche in noi, incide in qualche pulsante
angolo del nostro cuore una traccia, magari minima ma persistente, un segno che
ci terrà per sempre compagnia.
Quando l’attenzione
è “realmente attesa a ciò che non esiste” (parole di Simone Weil citate in
esergo) il cuore sa far spazio a ciò che manca, rinvigorisce la memoria: «Soli
siamo ad imbastire nomi, verbi, aggettivi / per poter dire di quel luogo di
maree dietro le parole, / come me, ancorata a un foglio tra i flutti di un
silenzio visibile // dove è un andare e tornare – senza distanza. / Dove mi
sgravo di versi scritti in piedi, / in fretta prima che sfuggano alla memoria
stanca / che ormai sa solo i volti e dimentica i nomi. / Eppure ha fede, ha
carità e continua a nominare, / ad annusare il vuoto, a dire meglio la speranza
/ e questa vita in paragrafi.» (p. 54).
Questa è una
splendida dichiarazione di poetica e al contempo viva creazione di immagini,
cascata di fotogrammi che ci propongono dei film paralleli, sovrapposti, ricchi
di molteplici suggestioni ma con parole semplici, empatiche, direi affettuose.
C’è una immedesimazione sincera e profonda di Lucianna Argentino nei confronti
di chi si presenta alla sua cassa con il proprio carico di acquisti e
(soprattutto) di vita in ogni pagina di questa raccolta. Solo alcune sporadiche
citazioni: «Irene cammina sul suo dolore e sente il tempo / scricchiolarle tra
i denti come sabbia.» (p. 55); «Se si potesse amplificare il battito / del
cuore di ognuno si potrebbe ascoltare / la fragile esitante nudità
dell’incerto.» (p. 58); «se ci sporgessimo oltre le nostre verità stanziali, /
(…) / per accoglierci dentro quel provvido mistero / che fa della vita un
cammino.» (p. 59); «Ma forse è il nascere a guastarci, / quel giungere – da
dove? – quell’essere in fieri, / che fa di noi dei diventati.» (p. 60); «Eppure
sapere chi si è / è il primo passo per adattarsi a ciò che non si è.» (p. 62);
Mimì era un uomo con lo sguardo di fiume / (…) / e stava come mai uscito dalla
nascita, / rannicchiato in una bolla di eterno. / (…) / … randagio senza randa
/ (…) / L’amore lo sapevi dall’assenza, / non di cosa stata e andata via, / ma
come di avvento sempre rimandato» (p. 63)…
Quanta forza e
quanta delicatezza sa esprimere la Nostra, impregnata di letture e di saggezza,
ferita ma fiduciosa, occhio vigile e discreto, mano disponibile all’aiuto,
volto che non dimentica il sorriso, anima provata ma capace di dilatarsi e
accogliere e convertire «la ferita in cammino» (p. 81), di riconsegnare i volti
«all’infanzia o a Dio, / così mi stanno dentro per amore e non per dovere.» (p.
16).
Se non si fosse
ancora capito, credo che queste Stanze inquiete siano un’opera epocale,
indicano con autorevole dolcezza un senso
buono che tutti abbiamo e che tutti possiamo contribuire
fraternamente a costruire, e di cui c’è assoluto bisogno in questa temperie
confusa fra terrore e indifferenza, connessione continua e individualismo,
latitanza delle classi priviligiate e sconvolgenti disuguaglianze: «… un senso
buono potrebbe farci strada, / essere varco verso quel piegarsi pietoso, quel
corpo genuflesso in noi / che non ha un nome e non si può invocare, / ma lo
senti a perdifiato, lo tocchi dal rovescio.» (p. 22).
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