Claudio Tugnoli è un filosofo poetante nativo di
Budrio, vicino a Bologna: ha insegnato filosofia e storia nei licei trentini
(soprattutto al classico “Prati” di Trento) e nelle Università di Trento e
Bologna. Inoltre ha svolto per anni attività di ricerca presso l’Iprase
trentino (ente per l'aggiornamento insegnanti) pubblicando vari volumi di filosofia e antropologia filosofica con
un’attenzione particolare al tema del tempo: tra le sue varie
pubblicazioni ricordiamo Diacronia e
sincronia. Saggi sulla misura del tempo, Zooantropologia (entrambi della
Franco Angeli) e Girard. Dal mito ai vangeli (ed. Messaggero
Padova).
Come poeta Tugnoli
ha pubblicato La tua ombra (Manni 2011), Gli anni riapparsi in umiltà di gloria. Poesie in dialetto brudriese (Manni 2012), Sarà forse la rana, o alcun che solo canti. Centosei haikai (Manni 2013),
Or tutta la palude è come un fiore. Nuovi haikai (Il Monogramma 2014), Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese (Manni 2014), e la recente In sul declinar fiamma m’accende.
Novantahaikai (Il Faro 2015).
I temi cari della sua poesia sono
quelli universali della precarietà della vita, della riflessione sulla morte,
del ricordo di un mondo contadino di ispirazione camoniana e olmiana. Tra le
poesie più belle in budriese (che ha ricevuto il primo premio per la sezione
poesia in dialetto al concorso di poesia “Nestore”
organizzato da “Nuovo arcobaleno” di Savona), c’è senz’altro La
gramadåura (“Impastatrice di legno”), contenuta
nella citata Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese:
quaranta poesie in dialetto budriese inframezzate da versi in italiano e da
sporadiche citazioni dotte.
Come scrive
il linguista Daniele Vitali nella sua
Prefazione “Il tono dei pezzi in dialetto e quello degli intermezzi
in italiano è molto diverso”: il dialetto Tugnoli lo usa per i ricordi e
contiene tracce di rimpianto, “L’italiano è una specie di contrappunto” dotato
di una certa ironia e distacco che va a spezzare il “flusso di coscienza
dialettale” della raccolta. Il dialetto di Budrio svolge quindi la funzione
letteraria, mentre gli inserti in lingua nazionale – come scrive sempre Vitali – hanno una valenza “ancillare”. Il budriese, ci ricorda Vitali (autore, con
Luigi Lepri, di un importante
Dizionario Bolognese-Italiano, Italiano-Bolognese e della
grammatica Dscarret in bulgnais?) appartiene al ramo rustico orientale
della galassia dei sottogruppi dialettali bolognesi. In calce del volumetto
ricordiamo una “Nota sulla lingua” di Tiziano Casella (al quale si deve anche
la revisione ortografica delle poesie della raccolta), impegnato da anni
nell’insegnamento del dialetto ai giovani budriesi e dell’ortografia ai meno
giovani.
La
poesia svolge una “filosofica” similitudine tra gli elementi della terra (da un
lato) che nelle mani sapienti della madre e lo strumento tecnico (impastatrice)
diventavano pane che “ terminava di
morire nelle nostre bocche/ e infine diventava terra/ e poi grano di nuovo”
(insomma: la ciclicità della ruota naturale e il “tutto si trasforma”) con
l’uomo e la sua esistenza effimera
(“Anche noi diventiamo terra,/ma ad esser rinato come fa il
grano,/sappiamo che finora è stato solo Uno”) che può aspirare ad una propria
rinascita solo nel solco della fede nell’uomo-Dio.
Pubblichiamo
di seguito la versione in “budriese” e la traduzione in italiano:
La
gramadåura
Apànna l’avêva
preparè la pâsta,
int al quâtar
dla matîna,
mî mèdar l’um mitêva
sòta
a môvar la gramadåura,
pr an avàir da mnèr la pâsta
tótta con al män,
con una grän fadîga.
La gramadåura
l’îra un’âsta ad làggn
che mé a fêva
andèr só e żò
parché ch'la squizéss l inpâst
che mî
mèdar la muvêva
par dèri al tûran.
Una vôlta
mnè pulidén
l inpâst
l andêva taiè in tänt
pîz
par fèr al pagnòt e i panén.
Dal män
svêlti ad mî mèdar
ai gnêva
fòra al fåurum ad pän
biänchi biänchi
con un udåur spezièl:
âli andêvan
lasè quêrti un zêrt tänp
prémma ad méttri int al fåuran
par dèr môd
al livadûr ad bérra
ad fèr livêr
la pâsta al necesèri.
Cûṡar al pän
al n îra mìa fâzil,
biṡugnêva
ch'al fóss còt al giósst
né tròp còt né tròp pôc.
Arê vló dmandèr
a mî mèdar
se cal pagnòt acsé bèli
âli avéssan vójja
d andèr int al fåuran.
Lî l'um arê
détt che ai vlêva al fåuran
pr avàir al pän
prónti da magnér.
Da biänc
al pän al guintêva
dal stàss culåur
dal furmänt madûr!
Al pagnòt apànna gnó
al mònd
as lasêvan
cûṡar sänza
dîr gnìnt:
dòp che la calûra
la i avêva tôlt al fiê,
âli îran
prónti da magnèr.
Al pän
còt e al furmänt madûr
se i avêvan
al stàss culåur,
ai avêva
da èsar un parché:
l îra che tótt
dû i îran arivê
ad cô.
Al pän
al finêva ad murîr
int al nòstar bòcc
e âla fén al guintêva
tèra
e pò furmänt
un’ètra vôlta.
Panis
angelicus
fit
panis hominum;
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.
Nuètar invêzi quänd a sän ad cô
a pirdän
al culåur dal furmänt
madûr
o dal pän
còt e a guintän biänc biänc,
ch'a parän
alżîr alżîr,
quèṡi prónti
par èsar spazè vì da un cåulp
ad vänt.
Änc a nó
a guintän tèra,
mo a turnèr a nâsar
cum é al furmänt,
fén
adès a savän ch'ai é stè såul Ón.
L’impastatrice di legno
Dopo
aver preparato l’impasto
verso
le quattro di mattina,
mia
madre mi metteva all’opera
per
azionare l’impastatrice,
così
da non dover lavorare l’impasto
solo
con le mani, con una gran fatica.
L’impastatrice
era un’asta di legno,
che
io facevo andare su e giù
per
schiacciare l’impasto,
mentre
mia madre lo muoveva
per
dargli il turno.
Una
volta lavorato ben bene,
l’impasto
si tagliava in tanti pezzi
per
farne pagnotte e panini.
Dalle
mani svelte di mia madre
uscivano
forme di pane
bianchissime
con un profumo speciale:
si
lasciavano coperte per un po’
prima
di metterle nel forno,
per
consentire al lievito di birra
di
far lievitare la pasta il dovuto.
Cuocere
il pane non era facile,
doveva
essere cotto il giusto,
né
troppo, né troppo poco.
Avrei
voluto chiedere a mia madre
se
quelle pagnotte così belle
volessero
andare nel forno.
Lei
mi avrebbe detto che ci voleva il forno,
per
avere il pane pronto da mangiare.
Da
bianco il pane diventava
dello
stesso colore del grano maturo!
Le
pagnotte appena nate
si
lasciavano cuocere senza dire nulla:
dopo
che la calura gli aveva tolto il fiato,
erano
pronte da mangiare.
Il
pane cotto e il grano maturo,
se
avevano lo stesso colore,
doveva
esserci un motivo:
era
che entrambi eran giunti al capolinea.
Il
pane terminava di morire
nelle
nostre bocche
e
infine diventava terra
e
poi grano di nuovo.
Panis angelicus
fit panis hominum;
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.
Noi
invece giunti al capolinea
perdiamo
il colore del grano maturo
o
del pane cotto e diventiamo così bianchi,
che
sembriamo leggeri leggeri, quasi pronti
per
essere spazzati via da un colpo di vento.
Anche
noi diventiamo terra,
ma
ad esser rinato come fa il grano,
Nessun commento:
Posta un commento