mercoledì 27 gennaio 2016

CLAUDIO TUGNOLI TRA LINGUA DI BUDRIO E HAIKAI

di Massimo Parolini

Claudio Tugnoli è un filosofo poetante nativo di Budrio, vicino a Bologna: ha insegnato filosofia e storia nei licei trentini (soprattutto al classico “Prati” di Trento) e nelle Università di Trento e Bologna. Inoltre ha svolto per anni attività di ricerca presso l’Iprase trentino (ente per l'aggiornamento insegnanti) pubblicando vari volumi di filosofia e antropologia filosofica con un’attenzione particolare al tema del tempo: tra le sue varie pubblicazioni   ricordiamo Diacronia e sincronia. Saggi sulla misura del tempo, Zooantropologia (entrambi della Franco Angeli)  e  Girard. Dal mito ai vangeli (ed. Messaggero Padova).
Come poeta Tugnoli  ha pubblicato  La tua ombra (Manni 2011), Gli anni riapparsi in umiltà di gloria. Poesie in dialetto brudriese (Manni 2012), Sarà forse la rana, o alcun che solo canti. Centosei haikai (Manni 2013), Or tutta la palude è come un fiore. Nuovi haikai (Il Monogramma 2014), Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese (Manni 2014),  e la recente In sul declinar fiamma m’accende.  Novantahaikai (Il Faro 2015).  
I temi cari della sua poesia sono quelli universali della precarietà della vita, della riflessione sulla morte, del ricordo di un mondo contadino di ispirazione camoniana e olmiana. Tra le poesie più belle in budriese (che ha ricevuto il primo premio per la sezione poesia in dialetto al concorso  di poesia  “Nestore” organizzato da “Nuovo arcobaleno” di Savona), c’è senz’altro  La gramadåura  (“Impastatrice di legno”), contenuta nella citata Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese: quaranta poesie in dialetto budriese inframezzate da versi in italiano e da sporadiche citazioni dotte.
Come scrive il linguista Daniele Vitali nella sua  Prefazione  “Il tono  dei pezzi in dialetto e quello degli intermezzi in italiano è molto diverso”: il dialetto Tugnoli lo usa per i ricordi e contiene tracce di rimpianto, “L’italiano è una specie di contrappunto” dotato di una certa ironia e distacco che va a spezzare il “flusso di coscienza dialettale” della raccolta. Il dialetto di Budrio svolge quindi la funzione letteraria, mentre gli inserti in lingua nazionale – come scrive sempre Vitali – hanno una valenza “ancillare”. Il budriese, ci ricorda Vitali (autore, con Luigi Lepri,  di un importante Dizionario Bolognese-Italiano, Italiano-Bolognese  e della  grammatica Dscarret in bulgnais?) appartiene al ramo rustico orientale della galassia dei sottogruppi dialettali bolognesi. In calce del volumetto ricordiamo una “Nota sulla lingua” di Tiziano Casella (al quale si deve anche la revisione ortografica delle poesie della raccolta), impegnato da anni nell’insegnamento del dialetto ai giovani budriesi e dell’ortografia ai meno giovani.
La poesia svolge una “filosofica” similitudine tra gli elementi della terra (da un lato) che nelle mani sapienti della madre e lo strumento tecnico (impastatrice) diventavano pane  che “ terminava di morire nelle nostre bocche/ e infine diventava terra/ e poi grano di nuovo” (insomma: la ciclicità della ruota naturale e il “tutto si trasforma”) con l’uomo e la sua esistenza effimera  (“Anche noi diventiamo terra,/ma ad esser rinato come fa il grano,/sappiamo che finora è stato solo Uno”) che può aspirare ad una propria rinascita solo nel solco della fede nell’uomo-Dio.
Pubblichiamo di seguito la versione in “budriese” e la traduzione in italiano:


La gramadåura

Apànna l’avêva preparè la pâsta,
int al quâtar dla matîna,
mî mèdar l’um mitêva sòta
a môvar la gramadåura,
pr an avàir da mnèr la pâsta
tótta con al män, con una grän fadîga.
La gramadåura l’îra un’âsta ad làggn
che mé a fêva andèr só e żò
parché ch'la squizéss l inpâst
che mî mèdar la muvêva
par dèri al tûran.
Una vôlta mnè pulidén
l inpâst l andêva taiè in tänt pîz
par fèr al pagnòt e i panén.
Dal män svêlti ad mî mèdar
ai gnêva fòra al fåurum ad pän
biänchi biänchi con un udåur spezièl:
âli andêvan lasè quêrti un zêrt tänp
prémma ad méttri int al fåuran
par dèr môd al livadûr ad bérra
ad fèr livêr la pâsta al necesèri.
Cûṡar al pän al n îra mìa fâzil,
biugnêva ch'al fóss còt al giósst
né tròp còt né tròp pôc.
Arê vló dmandèr a mî mèdar
se cal pagnòt acsé bèli
âli avéssan vójja d andèr int al fåuran.
Lî l'um arê détt che ai vlêva al fåuran
pr avàir al pän prónti da magnér.

Da biänc al pän al guintêva
dal stàss culåur dal furmänt madûr!
Al pagnòt apànna gnó al mònd
as lasêvan cûṡar sänza dîr gnìnt:
dòp che la calûra la i avêva tôlt al fiê,
âli îran prónti da magnèr.
Al pän còt e al furmänt madûr
se i avêvan al stàss culåur,
ai avêva da èsar un parché:
l îra che tótt dû i îran arivê ad cô.
Al pän al finêva ad murîr
int al nòstar bòcc
e âla fén al guintêva tèra
e pò furmänt un’ètra vôlta.

Panis angelicus
fit panis hominum;
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.

Nuètar invêzi quänd a sän ad cô
a pirdän al culåur dal furmänt madûr
o dal pän còt e a guintän biänc biänc,
ch'a parän alżîr alżîr, quèi prónti
par èsar spazè vì da un cåulp ad vänt.
Änc a nó a guintän tèra,
mo a turnèr a nâsar cum é al furmänt,
fén adès a savän ch'ai é stè såul Ón.


L’impastatrice di legno

Dopo aver preparato l’impasto
verso le quattro di mattina,
mia madre mi metteva all’opera
per azionare l’impastatrice,
così da non dover lavorare l’impasto
solo con le mani, con una gran fatica.
L’impastatrice era un’asta di legno,
che io facevo andare su e giù
per schiacciare l’impasto,
mentre mia madre lo muoveva
per dargli il turno.
Una volta lavorato ben bene,
l’impasto si tagliava in tanti pezzi
per farne pagnotte e panini.
Dalle mani svelte di mia madre
uscivano forme di pane
bianchissime con un profumo speciale:
si lasciavano coperte per un po’
prima di metterle nel forno,
per consentire al lievito di birra
di far lievitare la pasta il dovuto.
Cuocere il pane non era facile,
doveva essere cotto il giusto,
né troppo, né troppo poco.
Avrei voluto chiedere a mia madre
se quelle pagnotte così belle
volessero andare nel forno.
Lei mi avrebbe detto che ci voleva il forno,
per avere il pane pronto da mangiare.

Da bianco il pane diventava
dello stesso colore del grano maturo!
Le pagnotte appena nate
si lasciavano cuocere senza dire nulla:
dopo che la calura gli aveva tolto il fiato,
erano pronte da mangiare.
Il pane cotto e il grano maturo,
se avevano lo stesso colore,
doveva esserci un motivo:
era che entrambi eran giunti al capolinea.
Il pane terminava di morire
nelle nostre bocche
e infine diventava terra
e poi grano di nuovo.

Panis angelicus
fit panis hominum;
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.

Noi invece giunti al capolinea
perdiamo il colore del grano maturo
o del pane cotto e diventiamo così bianchi,
che sembriamo leggeri leggeri, quasi pronti
per essere spazzati via da un colpo di vento.
Anche noi diventiamo terra,
ma ad esser rinato come fa il grano,
sappiamo che finora è stato solo Uno.


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