recensione di Giorgio Casali
Sergio
Pasquandrea
(Fara
Editore, 2015)
Ricordi? Faticavi a capire
come potessi non provare nulla
di fronte allo splendore dorato
di una modella nuda. Io ti spiegavo
che sotto la matita un capezzolo
o un sasso si equivalgono
che il mondo è una foresta
di forme da decifrare.
Un
libro sulla conoscenza questo di Sergio Pasquandrea, vincitore della quinta
edizione del premio Faraexcelsior, poeta che indaga, che “guarda di profilo” la
pelle alla ricerca di una “sagoma precisa” o “anche solo una forma
riconoscibile”, siano osservazioni colte prima del suono della campanella o
tentativi di ricomprendere il linguaggio, di “fermare la fuga della sintassi”.
E
certo il motivo – non tanto la forma – ricorda Montale, sguardo d’occasioni che “non chiede svolgimento o
evoluzione” ma, da un punto fermo, ritrova “l’attimo immobile della poesia”;
almeno ciò che a chi scrive interessa.
Tutto potrei accettare
ma non questo affacciarsi sulla soglia
soltanto per saperla invalicabile
questa distanza che separa i petti
e rende così inutile l’abbraccio.
Impresa
faticosa, a tratti violenta, “Le ossa urtano i muri / per eccesso di visione” che
non pretende risposte, ma epifanie quotidiane, affilamento dei margini.
È
la sezione numericamente minore, “Intermezzo”, che non a caso occupa una
posizione centrale, quella da innalzare a sintesi e compendio di questa
riuscita raccolta. Tre poesie in cui, come in modo definitivo, si arriva a
conclusione, alla “linea indifferente / Dall’oggetto alla palpebra”, alle
“identiche traiettorie”, insieme presupposto e risultato.
Il
margine è davvero un limite che tradisce il titolo stesso del libro, oltre il
quale non si può andare? Pare di sì. Così come pare che, al limite, l’unica possibilità sia regredire, togliere qualcosa,
limando internamente il desiderio – e la parola – fino al ritorno primordiale, “all’eternità
minerale”.
Quel che volevo scrivere
era: “essere felice”.
È uscito fuori invece: “essere felce”.
Il lapsus mi denuncia un desiderio
inconscio di regressione pre-umana.
Resta adesso da prevedere il prossimo
scarto. La “elle”, forse?
Dopo il bolo ed il chilo
tornare parte del tutto sostanza
vivificante. In fondo
non sarebbe nemmeno tanto male.
Continuare
a scrivere, allora, per parlare d’altro, evitare quelle traiettorie acquisite e
salvarsi dall’inutilità del tutto, dal senso terribile che è “la pagina vuota”,
unico sbocco possibile, secondo l’autore, su ogni margine semantico.
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