3 agosto 2015
articolo pubblicato
Ho già parlato diverse volte di Sergio Pasquandrea (qui e qui). Autore che amo molto, moltissimo, e che ho avuto la fortuna di incontrare per tutta una serie di coincidenze che vale anche la pena ricordare. Due anni fa ho organizzato il Soggiorno dei poeti e degli artisti dove ho incontrato Antonio Lillo, poeta anch’egli ed Editore, poi, di Sergio. Quest’anno, alla seconda edizione del Soggiorno dei poeti e degli artisti diventato il Premio Letterario Carducci in Carnia ne Il Comune Rustico, Sergio è rientrato nella rosa dei finalisti ospitati dal Comune di Arta Terme per tutto il fine settimana del Premio e dei suoi eventi collaterali. Sergio è una persona posata, gradevole, che quando legge sorride trasmettendo l’ironia sottile che è componente essenziale dei suoi versi.
Fino ad ora di Sergio ho recensito versi quasi esclusivamente erotici, d’amore, essendo rimasto particolarmente colpito dalla sua capacità di trattare e giocare con l’argomento. In questo caso, e sto parlando del suo ultimo edito Oltre il margine (Fara Editore 2015), incontro un autore leggermente diverso, impegnato in discorsi più esistenziali pur senza mai mancare il riferimento alcorpo. Vincitore del Premio Faraexcelsior 2015, il libro si presenta come una lunga serie di colloqui dove la consapevolezza della vita è controbilanciata da un ottimo rapporto con essa, con le sue parti ruvide, con la coscienza che il mondo è anche male e sofferenza, ma che esiste un margine, un bordo sul quale stare in bilico. E sono in effetti poesie in bilico quelle di Sergio, dove la felicità è ancora possibile ma per istanti, piccole isole in un mare di vita vera che, in quanto tale, viene accettata.
La quotidianità in questo margine diventa tangibile, condivisibile nell’elencazione dei suoi oggetti quali il colluttorio (fra tanti). Anche i corpi, e il proprio corpo, a tratti paiono diventare oggetti quotidiani che misurano la propria posizione nel tempo. Dove si invecchia, ci si scopre in maturazione, in sovrapprezzo. Ma il margine aiuta anche in questo, ad accettare il cambiamento e il baratro al di là del cambiamento, che proprio perché al di là perde i suoi connotati drammatici e diventa quello che è: vita, cose che cambiano. L’accettazione e la capacità di riderne rendono quasi comodo questo margine, quasi agibile.
Su tutto aleggia un nemmeno troppo nascosto Montale che confessa un male di fondo, quasi un rumore di sottofondo cosmico che però non dispera, ma fa parlare. O meglio fa dialogare perché la parola data è quanto riesce ad andare oltre il margine senza cadere, senza sfaldarsi. È per questo che le poesie parlano sempre / d’altro: sono traiettorie evitate. Traiettorie per un senso che è oltre il margine / delle parole nel bianco indiviso / della pagina vuota. Dove in qualche modo è la soluzione delle cose, e il significato del margine.
La chair est triste
Le voci sono opache
oltre i muri del bagno
ultima Tebaide
conosci te stesso
la carne pallida allo specchio
lascia sfumare gli odori
rifletti per sei minuti sulla vecchiaia
fa’ agire il colluttorio per trenta secondi
cancella mentalmente le conclusioni.
Macchie
“Non vanno via” dice “rognose
sono ostili ai detergenti
e il trattamento rovina i tessuti.
Dovrò farle il sovrapprezzo.”
“Ma è sicuro che per forza? In fondo
il colore non è dirimente
e nemmeno la posizione rafforza
l’ipotesi”. E poi non dico:
quale sarebbe stata la traiettoria
quale la tangente alla pelle nuda
in uno di quei grigi compatti del crepuscolo
quando sei così prossimo alla rivelazione?
“Dia retta: vuole mica che non sappia
riconoscere il sangue?”. Non voglio:
ma lo stesso rifiuto di accettare
la perdita meglio pensare
che i fonemi guariscano le cesure
possano sempre suturarsi
che basti una sinalefe
o dell’acqua ossigenata.
Io non sono qui
Le ossa urtano i muri
per eccesso di visione.
È scuro fra di noi
come una lingua in attesa.
Ma dovrai dirmi tutto un giorno
invecchieremo con la faccia del primo incontro
io con l’angolo acuto degli zigomi
tu con gli occhi iniziati da bambina.
Una volta guardavo l’acqua
nel punto più trasparente
ha risuonato fortissima una pausa
ma non aspettavo nulla se non di allargare le penne
ad asciugare nella nebbia.
È il mio compito restare immobile
in attesa del verso.
Tu comunque non c’eri
e anch’io facevo di tutto per svanire.
Se ti trovassi un giorno a sfiorare la riva
potresti farti strada nelle mie costole
vedermi vuoto finalmente.
Lonely Woman
Questa goccia d’acqua non ha fretta
di raggiungere il polso
per ora è ferma a mezza strada
sull’avambraccio ma uno ad uno
aggirerà gli ostacoli. Bisognerebbe
prendere esempio – pensavo – l’intenzione
è il nostro peccato originale.
Pensavo anche che allo stesso
modo si comportano le lacrime
non hanno mai fretta arrivano
e non c’è niente da fare – davvero
niente – soltanto
la gelida pietà delle pareti nude.
Se fossi lì – pensavo – le mie labbra
forse basterebbero – la lama
sfiorerebbe soltanto la pelle.
Spero nel fuoco fermo
delle pupille – in questo laccio di parole.
Opus inchoatum
I hear that you’re building
Your little house deep in the desert…
(Leonard Cohen)
Sono convinto che in fondo tutto
possa significare tutto
anche il silenzio della mattina
di Santo Stefano – mentre da un lato
della scrivania traduco Robert Lowell
e dall’altro prendo appunti
per lettere alle quali ti ho chiesto
di non rispondere.
Non ho niente di nuovo da raccontarti
come sempre del resto
e il lavoro come sempre non ha fine
né frutto. Tanto vale estirpare le mani
dal calco tiepido dei seni
e affrontare a schiena nuda la sesta
giornata d’inverno. Ho sentito il meteo
c’è neve in arrivo dalle mie parti
non so dalle tue. Questa
è la poesia numero novantasei
quest’anno – anche quello
è un lavoro senza fine
ma il rammendo alla fine comporrà
un disegno coerente – almeno spero.
Ho sbirciato fuori comunque
il mondo è immobile
e privo di colori. È un buon segno
o perlomeno io lo leggo così
perché posso sincronizzare
il respiro sul ritmo più vicino
possibile alla quiete. Non c’è molto
da dire ma bisogna dirlo.
II.
L’importante è che lo sguardo resti fermo
in linea di principio perlomeno
che siano identiche le traiettorie
per i capezzoli eretti e per l’agonia
della blatta capovolta.
Sulle caviglie un’onda
cancella l’altra
le alghe i frammenti di calcare
sono tutti uguali e tutti diversi.
Tecniche di parata
Si scrive sempre per schivare il colpo
(è un modo come un altro) in fondo
quanta bellezza si può sopportare
prima che le costole cedano?
È per questo che le poesie parlano sempre
d’altro: sono traiettorie evitate.
Oltre il margine
Un discepolo chiese a Zhàozhōu:
“Un cane ha o no natura di Buddha?”
“Wú”, rispose il maestro. (apologo zen)
“Come nasce la poesia” è la domanda
alla quale più spesso mi capita
di non rispondere
perché la risposta sarebbe talmente articolata
da perdere di vista il proprio oggetto
o al contrario talmente semplice da sfidare
gli elementi minimi della semantica.
La chiave (mi dico spesso) non è
nella parola – ma nell’occhio.
Ricordi? Faticavi a capire
come potessi non provare nulla
di fronte allo splendore dorato
di una modella nuda. Io ti spiegavo
che sotto la matita un capezzolo
o un sasso si equivalgono
che il mondo è una foresta
di forme da decifrare.
Non credo di averti mai convinta.
Dovrei mostrarti (pensavo oggi)
qualcosa di Robert Mapplethorpe
farti apprezzare l’oscenità
delle sue orchidee la purezza dei suoi
testicoli rigonfi – e poi passare
al sì e al no alla natura buddhica
del cane e alla sublime risposta
di Zhàozhōu che presumo
starà ancora ridendo di noi
da un cantuccio qualunque del non-essere.
Ma ecco di nuovo mi sono perso:
dimentica tutto ciò che ho detto
è tutto inutile come al solito
il senso è oltre il margine
delle parole nel bianco indiviso
della pagina vuota.
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