recensione di Annalisa Ciampalini
Premessa. È bello
trovarsi davanti a una raccolta poetica in cui vi sono una premessa, un antefatto,
un prologo e un’apertura, e poi alla fine un epilogo e un congedo. Tutte queste
fasi possono significare che l’autore intende progettare qualcosa di compiuto,
non solo mettere sulle pagine una sequenza di versi riusciti.
Prima della premessa si legge: Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta,
mettendola al servizio degli altri. (I Pt 4,10) e nella premessa l’autore scrive: Raccontami di te, del tuo
cammino, / di ciò che opprime il cuore o lo dilata, / del senso che ti sembra
incomprensibile, / della felicità legata al vivere /(…) e dopo il congedo troviamo:
(…) Noi siamo la nostra parola, ma la
nostra parola non esisterebbe se non si fosse costituita attraverso la parola
degli altri che ci hanno parlati (Massimo Recalcati, Il complesso di
Telemaco…). Dalle frasi riportate si può intuire che l’autore desidera
proporre un percorso e che gli
altri, quindi anche il lettore, faranno parte integrante dell’iter che il poeta ha in mente.
La raccolta si presenta, al solo
sfogliarla, densa, piena di richiami e note: si capisce subito che esige una
lettura attenta, da ripetere. Il fatto che il lettore sia in qualche modo
chiamato in causa aggiunge una nota di entusiasmo utile per addentrarsi nella
conoscenza del testo.
La struttura ci parla. Ancora un appunto su quello che si può
evincere da uno sguardo sommario: l’opera si sviluppa, per la maggior parte,
attraverso quartine di endecasillabi e alla fine di ogni quartina vi è un verso
tra parentesi. Dopo ogni poesia troviamo una parola in lingua cinese sempre
tradotta. Devo dire che nell’ordine
grafico dato dalle quartine, la singola parola in lingua cinese spicca per
brevità e per un diverso carattere che ci rimanda subito a qualcosa di esotico.
Mi sono chiesta perché l’autore abbia deciso di affidarsi a uno schema metrico
così rigoroso e ho trovato la risposta nella illuminante prefazione di Vincenzo D’Alessio, in cui si dice che tale scelta è
da ricercarsi nelle letture dei Salmi dell’Antico Testamento. Procedendo
con la lettura a pagina 20 si trova: Che
meraviglia è avere la coscienza / di navigare oltre i quattro arti – / un gancio
qui nel mondo contingente / di quella illimitata permanenza / e a pagina 21: in atomi di solidarietà / con il coraggio
unito all’obbedienza / che implica la fede e l’alimenta / curando il campo della
società. Coraggio e obbedienza sono quindi fondamentali per la fede, per un
dialogo costante con l’Eterno. L’obbedienza è in stretta connessione con la
disciplina, non si improvvisa, si raggiunge dopo tanto esercizio. Il coraggio è
l’ardire che ci consente di andare oltre sfidando la paura e la limitatezza
insite nell’uomo. In questo caso credo ci si riferisca al coraggio che ci fa
dimenticare noi stessi e ci rende totalmente disponibili all’incontro con
l’altro. O al coraggio che serve per affidarsi interamente alla chiamata della
fede. Ho trovato, nella perfetta struttura metrica delle quartine, il riflesso
dell’obbedienza e della disciplina che la fede esige, e nell’uso della lingua
cinese, il coraggio di spingersi oltre il limite personale, l’invito ad una splendida avventura in
una terra lontana dove la lingua segue altre regole e si incarna in simboli
differenti.
La lettura. La mia
preparazione non mi ha consentito una lettura da subito agevole perché ho
dovuto soffermarmi del tempo sulle
note e sulle citazioni; pertanto, prima che il tutto diventasse fluido,
che le frasi di altri autori formassero un corpo unico assieme ai
versi di Alessandro, ho dovuto leggere
il testo più volte. Solo così sono riuscita ad assaporarne appieno la bellezza
e la portata del significato.
A pagina 26, terza quartina,
leggiamo: se mi accompagni in questa
digressione / non ti prometto altro che uno sguardo / una domanda-verso un
compimento / un desiderio di continuazione. In questi versi il poeta tende la
sua mano a tutti, indistintamente, e il suo sguardo sul mondo è volto a cercare
un compimento, un senso che, sebbene
non sia sempre manifesto, può
essere intuito da ogni creatura tramite la fede. Questa è la sfida principale. Non
a caso, all’inizio dell’opera, prima della premessa, troviamo: Così,
da qualsiasi parte si volga, l’uomo si trova isolato nella realtà come un’isola
circondata da un mare fragoroso di possibilità e interrogativi. Se ne può
concludere che il mondo ha un significato. (Camus, Taccuini II, pp. 82-3).
L’esistenza di un senso per il nostro stare qui è una delle premesse da cui si
sviluppano le tematiche principali dell’opera.
Siamo dunque tutti in viaggio, un
cammino difficile, spesso tortuoso; ma se vogliamo siamo capaci di trovare il
sentiero giusto da percorrere e la meta luminosa. Chiarificanti, circa la
specie di percorso che ci attende, sono i versi a pagina 49, ultima quartina,
in cui si legge: (…) – a noi non resta / che
partire mettendo in fila i passi – / la meta dell’andare si deduce. Tali
parole hanno però un significato
ben più ampio: esprimono lo spirito del viandante-fedele che non si muove
secondo schemi prestabiliti, che non esige una vita tranquilla e costruita solo
per sé stesso, ma intraprende un
iter scomodo e coraggioso: quello della fede. A proposito si legge alla fine di
pagina 39: La conversione è sempre una
chiamata: / “Vattene” affidati all’invito folle / che fa di te il viandante del
respiro / la parte della terra più animata.
L’opera è talmente densa e
stratificata che i significati si aggiungono ad ogni lettura, di continuo si
innestano dubbi e possibili risposte, sebbene il chiarore finale della fede
giunga sempre a dare compimento alla complessa avventura dell’uomo.
Personalmente, tra le tante
questioni interessanti che si incontrano nel percorso di lettura, ho trovato
fondamentale la riflessione sul
narcisismo, sull’aspetto che assume una vita quando è riempita solo dal
soggetto. In molti versi riscontriamo il riverbero di questo pensiero che
sembra diventare, a ragione, una preoccupazione per l’autore. A pagina 52 leggiamo: Le giustificazioni personali / dell’io-senza-nessuno e autocentrato / ci escludono di fatto dal giardino / che fa fruttare i beni
e annulla i mali. E ancora (…) un nesso narcisistico ma stanco / inabile a veder
fuori di sé: / tutto è ridotto, tutto consumato / se ira, invidia e rabbia sono a
fianco. Alla fine di questa poesia troviamo, in lingua cinese, la parola “palude”. Una vita immobile quella
che ha un solo centro, destinata a implodere, a non arrivare da nessuna parte.
Mi preme riportare la prima
quartina di pagina 41: È attraverso il
sentimento e l’incontro / che ci riconosciamo: il tu diventa / presenza
indispensabile al soggetto / all’unità profonda dello scontro. Per definirci,
per conoscerci e riconoscerci, l’altro è pertanto indispensabile. Bellissimi
versi che riecheggiano il “Principio di indeterminazione” per cui le misure che
definiscono certi parametri di una particella (soggetto) sono sempre
condizionati dall’osservatore (oggetto). Una condizione di reciprocità che si
riscontra tanto in fisica quanto nell’esperienza di stabilire un dialogo
profondo con l’Eterno.
D’altra parte l’autore mai si
sottrae dalle questioni fisiche, non teme l’idea di un universo fatto di
particelle, non esita a nominare gli uomini quanti
vivi e misurabili (pagina 22) e l’anima (…) Un’azione / sublimata, l’effetto di una chimica/ancestrale, (…)(p. 23). Nessuna di queste concezioni, per quanto plausibili, può mettere in
discussione il significato della fede, nessun pensiero sulla natura
dell’universo può essere in conflitto con l’amore che precede ogni fenomeno, che deriva da Dio e si sparge negli
uomini.
Desidero concludere questo commento con i luminosi versi di pagina 57 in quanto testimoniano
come uno spazio immane e un tempo senza fine possono essere concepiti dalla mente-anima finita di un uomo. Eccoli: Lo splendido brillio di una risata / il flusso
del big bang in espansione / l’amore per cui l’anima è al futuro / sapendosi da sempre
generata.
Anche questo dovrebbe stupirci.
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