Sergio Pasquandrea (Perugia)
con Oltre il margine
Sergio Pasquandrea è nato a San Severo (FG)
nel 1975. Dai primi anni Novanta vive a Perugia, dove insegna Lettere in un
liceo e collabora come ricercatore con l'Università. Ha pubblicato la silloge Approssimazioni (Pietre Vive/iCentoLillo
2014) e due plaquette: Topografia della
solitudine (Fara 2010) e Parole agli
assenti (Smasher 2011). Di prossima uscita, il volume Un posto per la buona stagione (Smasher). Suoi testi sono apparsi
in riviste («Scuola di poesia» de «Lo specchio», a cura di Maurizio Cucchi; «Gradiva.
International Journal of Italian Poetry»), su blog letterari (Via delle Belle Donne, Carte sensibili,
Poetarum Silva, La dimora del tempo sospeso, Words Social Forum) e in varie
antologie. Svolge inoltre attività di giornalista e critico musicale per il
bimestrale «Jazzit» e per i blog Nazione
Indiana, La poesia e lo spirito e Jazz
nel pomeriggio. Ha pubblicato nel 2014 il libro di racconti Volevo essere Bill Evans. Storie di jazz
(Fara) e nel 2015 il volume Breve storia
del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e in nero (Arcana Editrice).
Gestisce inoltre due blog: Ruminazioni
(ruminazioni.blogspot.it)
e Gusci di noce (guscidinoce.wordpress.com).
La chair est triste
Le voci sono opache
oltre i muri del bagno
ultima Tebaide
conosci te stesso
la carne pallida allo specchio
lascia sfumare gli odori
rifletti per sei minuti sulla vecchiaia
fa' agire il colluttorio per trenta secondi
cancella mentalmente le conclusioni.
L'âme ensevelie
Essere sveglio mentre tutti dormono
essere qui a muovere le dita
mentre i muscoli della casa si contraggono
ci vorrà pure qualcuno
a guidare le grandi migrazioni
e infatti ora sorveglio le schiene
verso i guadi più sgombri
verso le vene fertili
tutti hanno arreso la carne
ma non io che li guardo di profilo
ascolto crescere la pelle.
Teleidoscopio
Fra il termosifone e la lavastoviglie
secerne il cartone del latte
la sua tristezza d'ippopotamo.
È scaduto l'abbonamento
e il comune si appresta a derattizzare.
La leptospirosi del resto sta diventando
un problema serio. Niente gabbiani in vista
né tramonti. Dall'olio emerge la melanzana
orlata di muffa traslucida.
Incastri obbligati
Se solo – pensavo – le tessere
avessero non dico un numero
ma anche solo una forma riconoscibile –
qui la testa lì la coda lì la pinna
dorsale ed ecco la sagoma precisa
del pesce le scaglie di colori
primari – se non ne avanzasse
sempre una – se la lacuna
fosse colmabile se bastasse
citare poetesse dal nome impronunciabile
se la saggezza avesse proprietà
osmotiche – se insomma “tutto va bene”
non fosse così completamente
sbagliato – se si potesse
ultimare il periodo ipotetico
fermare la fuga della sintassi.
Macchie
“Non vanno via” dice “rognose
sono ostili ai detergenti
e il trattamento rovina i tessuti.
Dovrò farle il sovrapprezzo”.
“Ma è sicuro che per forza? In fondo
il colore non è dirimente
e nemmeno la posizione rafforza
l'ipotesi”. E poi non dico:
quale sarebbe stata la traiettoria
quale la tangente alla pelle nuda
in uno di quei grigi compatti del crepuscolo
quando sei così prossimo alla rivelazione?
“Dia retta: vuole mica che non sappia
riconoscere il sangue?”. Non voglio:
ma lo stesso rifiuto di accettare
la perdita meglio pensare
che i fonemi guariscano le cesure
possano sempre suturarsi
che basti una sinalefe
o dell'acqua ossigenata.
(…)
MACCHIE
La chair est triste
Le voci sono opache
oltre i muri del bagno
ultima Tebaide
conosci te stesso
la carne pallida allo specchio
lascia sfumare gli odori
rifletti per sei minuti sulla vecchiaia
fa' agire il colluttorio per trenta secondi
cancella mentalmente le conclusioni.
L'âme ensevelie
Il profondo torpore originario,
l’anima ancora sepolta…
(Hippolyte Taine)
Essere sveglio mentre tutti dormono
essere qui a muovere le dita
mentre i muscoli della casa si contraggono
ci vorrà pure qualcuno
a guidare le grandi migrazioni
e infatti ora sorveglio le schiene
verso i guadi più sgombri
verso le vene fertili
tutti hanno arreso la carne
ma non io che li guardo di profilo
ascolto crescere la pelle.
Teleidoscopio
Fra il termosifone e la lavastoviglie
secerne il cartone del latte
la sua tristezza d'ippopotamo.
È scaduto l'abbonamento
e il comune si appresta a derattizzare.
La leptospirosi del resto sta diventando
un problema serio. Niente gabbiani in vista
né tramonti. Dall'olio emerge la melanzana
orlata di muffa traslucida.
Incastri obbligati
Se solo – pensavo – le tessere
avessero non dico un numero
ma anche solo una forma riconoscibile –
qui la testa lì la coda lì la pinna
dorsale ed ecco la sagoma precisa
del pesce le scaglie di colori
primari – se non ne avanzasse
sempre una – se la lacuna
fosse colmabile se bastasse
citare poetesse dal nome impronunciabile
se la saggezza avesse proprietà
osmotiche – se insomma “tutto va bene”
non fosse così completamente
sbagliato – se si potesse
ultimare il periodo ipotetico
fermare la fuga della sintassi.
Macchie
“Non vanno via” dice “rognose
sono ostili ai detergenti
e il trattamento rovina i tessuti.
Dovrò farle il sovrapprezzo”.
“Ma è sicuro che per forza? In fondo
il colore non è dirimente
e nemmeno la posizione rafforza
l'ipotesi”. E poi non dico:
quale sarebbe stata la traiettoria
quale la tangente alla pelle nuda
in uno di quei grigi compatti del crepuscolo
quando sei così prossimo alla rivelazione?
“Dia retta: vuole mica che non sappia
riconoscere il sangue?”. Non voglio:
ma lo stesso rifiuto di accettare
la perdita meglio pensare
che i fonemi guariscano le cesure
possano sempre suturarsi
che basti una sinalefe
o dell'acqua ossigenata.
(…)
Giudizi
Una
poesia dell’impossibilità, dove la ricerca che si compie (attraverso l’unico
strumento che ci è dato, la poesia stessa) è destinata a fallire ma che non può
esimersi dall’essere compiuta: “non serve a molto avvicinarsi / se poi fuori
fuoco rimane / il dettaglio […]”. Quello che conta è compierla, questa ricerca,
poiché il materiale che ne emerge ha
piena legittimità di esistenza, è anzi la ragione per cui non ci si può
sottrarre all’imperativo di filtrare le esperienze di vita attraverso la lente
della poesia. Una silloge organicamente compiuta, stilisticamente consapevole,
che alterna momenti di delicata introspezione a riferimenti a una quotidianità
disadorna (domestica, scolastica) passando attraverso motivi montaliani offerti
consapevolmente e una sottile tematica erotica. L’autore contempla il reale
rimanendo immobile (“L'importante è che lo sguardo resti fermo”) offrendoci una
serie di scorci, di immagini osservate con apparente distacco e un persistente
senso di ineluttabilità. Poesia compiuta, contemporanea, efficace. (DavideValecchi)
Ecco
in Pasquandrea con la sua silloge Oltre il margine, un'idea di quel
limite vacuo epperò invalicabile che è vicino alla “soglia” rilkiana,
quella consapevolezza del sentire che cos'è vita, ma al contempo difficile da
dire e farne cifra “ma non questo
affacciarsi sulla soglia/soltanto per saperla invalicabile/questa distanza che
separa i petti/e rende così inutile l'abbraccio”. E ancora una Bellezza
dostoevskijana ridotta ad ultimo dolore incapace di redimere il mondo,
così Pasquandrea va alla ricerca delle cose e delle persone con linguaggio a
volte crudo e sottilmente interiore, con accenni chirurgici pescati da un
lessico che sembra non adatto alla poesia, che ricordano una visione del mondo
cara a Bacchini, ma forte di una sua vera identità e consapevolezza di stile,
con man capace riesce a portare il fatto d'ogni giorno verso quel limite, quel
margine, che è esso stesso punto poetico e appoggio per sguardi più lontani.
Una poesia che non ha bisogno del fatto naturale e chiaramente esplicito per
farsi annunciare, ma che pone l'occhio sulle cose sottomano, attinenti e usate
nel quotidiano per svolgere come un tappeto l'idea del tempo indeciso in cui si
vive, come aver le gambe in mezzo al confine di questo e l'altro secolo. Ne
testimoniano i rimandi e gli incipit, da De Angelis a Lowell, alle antiche
scritte sulla pietra. Versi poi alla persona amata che sembra essere però
troppo misteriosa per poterla completamente descrivere, così si accenna, si
scrivono lettere. Poesia che se sembra nichilista non lo è in nessun modo, anzi
con quella vacuità, quella soglia del margine, riesce a spalancare porte che ci
buttano in un domani prossimo ancora fervido di speranza e germinato da nuove
possibilità. (Fulvio Segato)
Una poesia
con un ché del primo Montale che tuttavia, diversamente da quello, vive una
tensione a scavalcare il margine di separazione e riparo dal mondo, come anche
il titolo suggerisce. Una poesia che perciò si fa strumento di approccio e
indagine alle cose e nelle cose, non ricostruzione decorativa nella pace di una
lingua morta. (Daniele Gigli)
Poeti segnalati
Diario inutile
di Gabriele Quartero (Brusnengo, BI)
Gabriele Quartero
è nato a Vercelli nel 1972. Vive a Brusnengo. Attualmente insegna inglese alla
scuola media. Ha pubblicato le raccolte Il cancellatore e altre poesie casuali
(2008) che ha vinto il premio “Senigallia – Spiaggia di Velluto” 2008
e Cinematografia di sottoscala (2010) classificatasi terza al premio letterario
"Città di Castello" 2009. Suoi testi sono apparsi su
«Tratti», «Specchio», «Atelier», «Il foglio
clandestino», «L'Ulisse».
I
L’imperfetto in ogni ricordo
mi accompagnava verso casa –
così lento che avevo la sensazione
di non arrivare.
Chi mi avesse guardato
da distante
avrebbe pensato
(ma non pensava niente).
Passavo ore sotto la pioggia
a guardare una vetrina, ad aspettare
l’ora di cena.
Era l’imperfetto a cercare la rima
era lei che tornava a quel tempo,
il tempo di quando tutto era meno illuminato
e io credevo alle mie cose,
se non altro per il gusto
di sistemarle in file ordinate,
di poterle alla fine senza vergogna ritirare.
Ma fu un momento preciso a fissare il conto
a far partire i giorni dentro a uno sguardo
che spauriva, che non osavo
incontrare. In sogno sembrava
tutto così indubitabile
il succedere delle cose, il piacere di
restare, il mancare poi al risveglio.
II
In particolare un gioco di costruzioni
le asticelle verdi azzurre rosse viola arancioni
si incastravano tra di loro
in perpendicolare,
formavano la base di ogni ragionamento;
in particolare di questo ragionare.
E in particolare ricordo la gabbia con le sbarre
che non potevo scavalcare,
non bastava strillare, non sapevo ancora le parole:
asticelle ben ordinate a mia protezione
ogni pericolo era vietato.
Come dopo
la dolcezza che restava era quel sapore
nauseante, un fischio di vuoto che si spalanca
su di un mondo non ancora interrogato:
“cosa resta alla mente, una volta svuotata?”
Un corpo che non ha sapere di sé, magari;
magari pure, ma in fatto di evasioni –
mai stato capace.
Poi le asticelle si potevano anche flettere
per formare ponti e recinzioni;
superfici solcate da fessure
i ragionamenti si incastravano fra di loro
fino a sembrare esaurienti, a convincermi
della duttilità di tutte le cose. Sono io lì
dentro
che costruisco oggetti misteriosi – a cosa servono?
Un dialogo che dopo me si ricostruirà.
III
Mi piace tutto ciò che resta
insoddisfatto, nulla più di questo
mi può servire qui, ora: i fantasmi
delle estati passate,
il modo in cui ogni vacanza finita
sembrava proprio non finire, il tornare
mi dava la tristezza di un’altra vita
una vita dove a nessuno scrivo
per nessuno ho nostalgia.
In autunno passo il tempo a leggere fumetti
sui gradini del pianerottolo
all’uscita da scuola dentro a un gioco mio
di solitudine perfetta,
sarei potuto somigliare a quegli anni
carichi di neve – ma io avevo appunto
un gioco, mi permetteva di escludere
ogni relazione. Per camminare guardavo
dentro a uno specchio che tenevo
tra me e il pavimento – e anche nel 1979
aveva nevicato parecchio,
avevo visto il primo computer, mi avevano regalato
un calendario per l’anno nuovo,
la stampante ad aghi
aveva disegnato un missile
che decollava verso il futuro.
IV
Ogni volta la carta dell’appeso ritorna puntuale –
il suo è un mondo di riflesso, sospeso
annegato nel vuoto,
dove se ti ci specchi è quasi sempre una bugia
ma dopo non ti dà fastidi
è l’immagine del contrario di tutto –
sono io a testa in giù sto cadendo dal fienile
in un attimo il telone verde si è scostato mi
sporgo
annego nel vuoto sono io mi sono appena risvegliato
dopo l’anestesia, a faccia in giù una mano mi
schiaccia
contro al lenzuolo verde chirurgico, mi portano
indietro
ora, mi danno del tè sono troppo
assonnato per bere, ho la testa
che pende in giù, dentro a uno specchio:
se io guardo
se apro la bocca e guardo
vedo fili neri dove prima c’erano i denti.
Sono io che sto per cadere
sono io mi rivedo a un anno senza denti
dentro a una pubblicità in bianco e nero
buono l’omogeneizzato la minestrina
assaggia come è buona, ma che bravo
tutto il vasetto hai mangiato hai pulito anche il
piatto
non ti sei neppure sbrodolato.
Sono io che cado nel vuoto
dopo morto rimarrà soltanto la mia testa
a guardare in giù
come la testa di gesso appesa sopra al lettino,
una testa niente corpo un paio di aluccie da
cherubino.
V
Il demone del rimpianto
dovrebbe ogni volta insegnarmi –
invece non imparo mai, l’esperienza
è qualcun altro.
Cosa si frappone a ogni decisione,
al troppo da pensare al troppo poco da fare?
Una cosa di cui non mi sono pentito un errore
una scelta avventata o magari anche meditata
per lungo tempo:
alla fine il risultato non è mai cambiato, sempre
io
cinque anni fa venti anni fa a fissare i poster
appesi
in camera. Cosa avevo appeso? Li ho poi staccati,
restano i rettangoli scuri lungo la parete,
o forse più chiari, non saprei ricordare –
ho in mente solo la tappezzeria verde
a fiori, i compiti alla scrivania,
poco altro facevo
poco ero.
Poi sono sicuro che sono io che esco
al venerdì pomeriggio al sabato sera
una sera di noia, nel locale guardo le ragazze
sedute ad altri tavoli, distanti, disinteressate…
Il demone del rimpianto non se le ricorda
crede sempre che là tutto possa accadere.
Per non deluderlo mi rassegno ad avere
di tanto in tanto queste fitte di ritorno
facendo finta siano vere,
lo prendo come un atto di fede in chi in cosa
non riesco ancora a chiedermelo.
(…)
Giudizi
Il
tema dell’infanzia, del ricordo, del ripercorrere istanti di vita passata ha
sempre trovato terreno fertile in letteratura, perfezionandosi e giungendo a
risultati grandiosi nel Novecento. Devo confessare che ho un debole per questa
tematica per cui quando ho letto per la prima volta questo Diario inutile ho subito percepito un’affinità, ne ho assimilato il
linguaggio con facilità. Questa silloge è probabilmente un diario ma è
tutt’altro che inutile. Anzi, l’autore tratta la materia con tocco lieve, senza
mai abbandonarsi a lirismi eccessivi, senza mai sfiorare l’elegia fine a se
stessa. Tutti i luoghi dell’infanzia sono evocati senza sentimentalismi a
cominciare dalla stagione-simbolo: l’estate. Tutto è intriso di una malinconia
consapevole, larvatamente dolente, senza eccessi. Una silloge compiuta,
stilisticamente omogenea, dove la poesia, affidata ad un linguaggio semplice (a
tratti perfino troppo), sorvegliato, prosastico è da ritrovarsi nelle immagini piuttosto
che nell’artificio retorico. (Davide Valecchi)
Riflessione
problematica sulla propria vita che diventa occasione di riflessione sul senso
dell’esistenza condotta con efficacia e ricercatezza espressiva. (RosaElisa Giangoia)
Quartero
parte da un lontano che si attorciglia con il presente per il suo "Diario
inutile" e con maestria riesce a farci andare dal prima all'adesso, avendo
l'impressione continua di non essere in un tempo definito e circondato, ma che
il tempo stesso sia parte del vivere che si ripete, seppure con modalità ed
oggetti diversi. Riesce, Quartero, a focalizzare simboli e situazioni che,
seppur non vissuti da tutti, danno l'idea di un totale che si è passato
insieme, quasi fossimo vicino a lui in quegli attimi della sua vita. In fin dei
conti senza facile retorica o malinconici sentimentalismi abusati pone
l'accento su nuovi miti, nuove situazioni eroiche che hanno bisogno del tempo
umano per diventar tali, ma già se ne distinguono i connotati; i supermercati,
le scatolette, i funerali a maggio. Visto tutto da oltre una finestra, come
dev'essere l'avvicinarsi del buon eroe, con la paura che quella figura incute,
con l'inconsapevolezza di pensare cosa ci facciamo noi in mezzo a tutto questo. Poesia brillante che scorre appena in
sussurro fra le rive di memoria e presente e si pensa che porti laggiù, nel
mare che tutto contiene, che è ogni cosa e ogni voce. (Fulvio Segato)
Un’opera
rischiosa nell’intenzione, perché è facile con un progetto simile scadere nel
trito del crepuscolarismo di inizio Novecento o, peggio, nei suoi epigoni
perennemente risorgenti per cui sembra che fare poesia realistica equivalga a
parlare a tutti i costi di calzini e I-Pad. Invece Diario inutile schiva bene il pericolo e riesce ad attraversare la
memoria climatica e oggettuale degli anni Settanta e Ottanta con un filo di
necessaria nostalgia, ma intesa come nostos,
come tensione a un ritorno che non è alle spalle ma in avanti. In questo modo
il diario, anziché privato e inutile,
assume carattere personale, e perciò
necessario al corso della storia e del mondo. (Daniele Gigli)
Intralci ed intervalli
di Elena Varriale (Napoli)
Elena Varriale è nata a Napoli.
Spesso alla deriva del sentire, nello spazio nebuloso della creazione, naviga
alla ricerca della parola e del verso e solo quando raggiunge il suo “porto”…
scrive. Ha pubblicato le raccolte di versi: Lo so che sbaglio (Tracce 2007) e Solubile Scompiglio
(Tindari Edizioni 2012). Ha
pubblicato versi e racconti in antologie, riviste e nel blog di Poesia di Rai
News curato da Luigia Sorrentino (poesia.blog.rainews.it/2011/11/10/opere-inedite-elena-varriale).
Il suo romanzo breve Se sei nato
caos non puoi diventare armonia è stato pubblicato
nell’antologia Faraexcelsior 2013.
Ogni
parola pronunciata è falsa.
ogni
parola scritta è falsa.
Ogni
parola è falsa.
Ma
cosa c'è senza la parola?
(Elias Canetti)
Sono
strane le parole del poeta
raccolgono
voci di materia inerme
e nei
dettagli fermano il pensiero.
Con le viscere tracciano il segno
con
il cuore accendono il ritmo
e nei silenzi afferrano il niente.
Il
suo dire è ingenuo inganno:
un
tuffo, un salto, un guizzo
e
l'arcobaleno è nelle sue mani.
Così,
la brezza di mare si fa racconto
e in
un solo battito di ciglia
prende
forma l’illusione di una sera.
*
Nel
buio, eccomi bambina
con
mano stesa nei sogni
a
raccogliere parole nuove
prese
al laccio con le stelle.
Incanto
perso su aride dune
adesso
che abito il mondo
è la
pelle delle menzogne
a
nutrire pavida l'ipocrisia.
Maroso
che inarca tempesta
spuma
il talento sullo scoglio
si fa
sale di roccia vulcanica,
albeggia
insonne nelle correnti.
*
Sulle gote rosse della notte
disegnate da matita di tramonto
le domande si fanno fiato
dei miei sospiri: sarà errante
o troverà pace l’anima mia?
A cavallo di una stella sfiorerà
l’angoscia del nulla conservata
dalla pietra o soffierà con alito
materno nell’utero gravido
di un cielo incompiuto?
Fiato del cosmo è il dubbio
scritto con esili contorni di luce:
la carne è solo cenere
nelle mani rugose del tempo,
cenere che si disperde.
Preservo le parole
che il vento vorrebbe
già lontane o perdute.
Solstizio di primavera
che ingravida prati
cercare è il mio destino.
Rugiada che disseta,
nell’aria fa festa l’eco
di tutti i miei non so.
E venne
il giorno in cui
le
parole leggere come piume
si fecero
carezza sulla pelle.
In un
soffio che sapeva d’estate
divennero
mano protesa
a
scavare solchi, vie di fuga.
Nel
punto di domanda
ma le
risposte non erano intonate.
Tra
suoni acuti e quelli grevi
solo il
caos abitò le vene:
il panta
rei di ogni certezza.
(…)
Giudizi
Versi
che portano il lettore a navigare in un mare di parole, che alternano
toni leggeri con toni più intensi e contenuti di sostanza con altri più
scontati, senza, tuttavia, che venga mai meno la fiducia nella parola.
(Caterina Camporesi)
La
raccolta poetica Intralci ed intervalli
invita il lettore al dialogo profondo e irrisolto sull’uso della “parola” quale
strumento per raggiungere il
dialogo con l’universo. L’autore ha scelto in epigrafe un passo di Elias
Canetti: “(…) Ma cosa c’è senza la parola?” . Partendo da questo assunto, il
Nostro svolge in un lungo racconto poetico la vastità della parola che dalla prime semplici sillabe di
contatto con gli affetti infantili: “ Nel buio, eccomi bambina / con mano stesa
nei sogni / a raccogliere parole nuove / prese al laccio con le stelle./ ”
prosegue con : “(…) cercare è il
mio destino. / Rugiada che disseta, / nell’aria fa festa l’eco / di tutti i
miei non so”. Il cammino poetico è difficoltoso, affonda nella continua incertezza, poiché la parola è un dono
offerto a chi ha volontà di ascoltare: sempre troppo pochi in una terra
meridionale dove “odio”, “dileggio”, “insulto”, formano “(…) Rabbia che
travolge argini / del concesso e si fa marea / che niente tollera e nulla
perdona / il rispetto è una zattera alla deriva”. Forte è l’aratro dei versi in
questa raccolta che finalmente mette a nudo la condizione disperante del Sud di
ogni luogo del nostro azzurro pianeta: “In quest’ozio meridionale / dove il
tufo surriscalda / e rilancia nell’aria afosa / anche le voci del quartiere / le
parole nascondono / nel loro bozzolo colorato / aspettano ali di farfalla / per
volare di fiore in fiore”. La metafora del tufo, materiale inconsistente nato
dalle viscere dei vulcani, si collega all’ozio che fa del Sud una terra
sedimentaria da troppi secoli dove tutto muta per restare uguale al passato. I
padri e le madri si affaticano per dare ai figli un futuro migliore
consentendogli di studiare e poi vederli andare lontani perché a Sud i luoghi
di lavoro sono occupati sempre dalla stessa gerarchia sociale, priva dei
meriti, poiché si nasce figli di qualcuno che occupa già quel ruolo. Un’
indelebile ferita che punge come aghi di ghiaccio di un inverno incontenibile e
inarrestabile: “ Gelo che punge nelle vene / resto a fissare nell’aria umida /
un velo di bruna fumante / galaverna cristallina che riveste / la terra di
anomali fantasmi”. L’autore ha scelto il verso breve, libero da rime e
prosodia, leggero e sonoro, avvinto all’enjambement per imprimere alla parola
potenza e sonorità, verità e falsità dell’esistenza, ricerca continua senza
sfiduciarsi, un fiume incantato di suoni/ sillabe che incontrano Madre Natura
ed essenza umana nella continua rinascita di fronte al fine vita: “ (…) Potrei
stupirti con i suoni / che le parole lasciano / quando l’incanto di fa verso /
e scioglie gli inganni / che il cuore non sa contenere / ma la distanza tra me e me / è fiume senza sponda. / ”
La forza del poeta di donare a se stesso il mezzo per innalzarsi nel volo verso
il Creato, verso l’eternità che la Poesia concede nell’energia del comporre,
nella grazia della semina della parola che non sta ferma sulla carta ma
percorre i solchi della memoria collettiva. Vengono in aiuto della Nostra i versi del Nobel, Eugenio Montale,
nella poesia “ Le parole” : “(…) le parole / dopo un’eterna attesa / rinunziano
alla speranza / di essere pronunziate / una volta per tutte / e poi morire /
con chi le ha possedute”. L’intera raccolta che abbiamo letto ha nel complesso
l’identità del ciocco acerbo di lana strappato dal grande vello per essere
filato, con mani antiche, all’uncino del fuso per divenire il filo adattabile
ad ogni abito dell’uomo. Un tuffo nel lavoro paziente delle mani che per secoli
hanno tramandato il messaggio che chiude momentaneamente questa parte del
racconto poetico: “Da te, Gesù ho imparato che il cuore / non è solo muscolo
che palpita vita / ma scrigno che nutre e preserva l’amore: / la gioia del
perdono, l’eternità del ricordo / la forza dell’esempio, l’abbraccio / delle
parole, il dolore della finitezza / e la poesia dell’infinito sentire.”
(Vincenzo D’Alessio)
Silloge
coesa nella modalità di costruzione dei testi di andamento arioso, di struttura
armonica, di fraseggio musicale, capaci di coinvolgere il lettore per il
carattere comunicativo pur nella ricerca dell’originalità nella formulazione
del pensiero. Poesie in cui l’osservazione del reale e del presente apre
orizzonti di riflessione esistenziale. (Rosa Elisa Giangoia)
In disperanza
di Marco Mastromauro (Novara)
Marco Mastromauro è nato a Verbania il 12.7.1957. Vive a Novara, lavora a
Vercelli. Ha pubblicato poesie sulla rivista «Alla Bottega» e, dal 1995 al
1999, ha collaborato al trimestrale di cultura e arte «Contro Corrente». È
autore delle raccolte di poesie: Anime
confinate (Milano Libri 1992), Cuba
(Ibiskos 1995), Memorie da un pianeta (Contro
Corrente 1997), Eros, Trinidad e altre
poesie"(Oppure 2000), Fraintendimenti
(ebook, Prospero editore 2013). Sue liriche sono presenti in alcune antologie come Siamo tutti un po' matti (Fara 2014).
E s’ tu non ti conforti, tu cadrai
in disperanza sì malvagiamente
che questo mondo e l’altro perderai
(Cino da Pistoia)
IN DISPERANZA
Dal fiato che sfiora l’ombra
provengono altre ombre e una polvere densa:
ai polsi non un bracciale
né, sul petto, il brillio di dorate speranze.
L’ansimare del cielo si fonde al respiro,
non dimentica di premere forte,
tenace estenuare si mescola a confusione
e sudore, s’annida nell’insignificanza.
Albeggia, monotona, la predizione del buio
e, poi, risplende immacolata o, ancora prima,
già immensa sulla parete della stanza e oltre,
disegna l’orizzonte.
SPERANZE
La beatitudine del nulla, ti chiedi:
si anima a pancia in su come cagnolino
sorpreso dal riverbero della mano
raspa l’aria con le zampe
si rotola nel fango
non ha fame né sete, dalle spine
ha liberato il domani.
Siediti allora, allontanati.
Ti basta smentire te stesso, riaffiorare,
del dolore custodire il peregrinare
e, infine, il suo eremo.
Sollevati verso tracce evanescenti,
testimonianze che attendono
limpide, consolanti, dove lo sguardo
è penombra e il tuo passo un cammino
senza direzioni.
Davanti alle magnifiche onde
Davanti alle magnifiche onde
ai bordi di schiuma
alle nuvole screziate che
si dissolvono in un bianco chiarore,
davanti a questo esilio sconfinato
di corpi e di attraversamenti,
davanti a lei che distesa soffia in alto
l’anima minuta, da sé l’allontana,
dalla memoria dei giorni,
dalla vergogna della pena,
scorrono fluorescenti abbandoni e
tace l’ignoto ovunque smisurato,
mare imponente, prezioso,
che oscilla nello sguardo indecifrato.
Così presenti
Così presenti,
lontani, quasi una forma innocua,
gli alberi lungo lo sterrato,
la pedalata regolare
mentre il tempo si chiude come
vischiosa cicatrice
muta i troppi movimenti sbandati
nello stretto margine rimasto
persistente, duro,
fra lo scorrere delle disperate apparenze
e questo rincorrersi nell’infinito splendore.
Novembre
Non c’è inferno né prigione,
nessun destino straziato.
Sotto il sole di novembre abbagliano,
immobili sulla pista,
aeroplani carichi di bombe.
I miei amici riposano in pace
abbracciati sotto la cenere delle stoppie:
in tutti, finalmente, vive questa tenera
sapienza senza brame, s’infonde
come unica conquista.
(…)
Giudizi
Un
verseggiare limpido e coeso che mette in scena la disperanza in parallelo
con la speranza che, con difficoltà cerca e trova la giusta direzione nei
confronti degli eventi che si susseguono. La sequenza di fatti, che quasi
mai recano conforto, coinvolgono in larga misura le persone . La seconda parte
della raccolta ha come sfondo luoghi e tempi che hanno ospitato la
straordinaria personalità di Etty Hillesum. (Caterina Camporesi)
Silloge
poetica caratterizzata dalla costante ricerca dell’originalità espressiva nella
tensione di rispondere ad un pensiero problematico che si snoda attraverso
bagliori di rappresentazione metaforica della realtà. (Rosa Elisa Giangoia)
L’Abbraccio
di Massimiliano Bardotti (Castelfiorentino)
Agli umili
agli emarginati.
Agli orfani
ai naufragati.
Ai folli.
Ai poeti.
La lunga carezza dell'abbraccio.
Così vasta
Così ambigua
Per la notte
Così pura!
(DINO CAMPANA)
patria notte
Questa notte
indigesto lamento
sul petto
cuore.
La notte
mia patria
riparo
corteccia.
Di notte
rinasco.
Cervo
lombrico.
Come agile merlo
dal rubare
distratto
abito case
di gente che
dorme.
Questa notte
ha aride labbra.
Le mani
che scuote
d'argento
sul petto di
corvo
sono il vino che
asciuga
dalla bocca la
sete.
*
Una lacrima
appesa
sul volto
distratto
tra le rughe la
vita
ricordo
ricatto.
La notte
bastone per lo
zoppo
bicchiere di
malto
caffè prima di
giorno.
L'odore
il sapore
delle cose
buone.
Ogni piccola
vita
da te
sussurrata.
*
Tutti i sogni sulle
nostre teste.
Il Moulin Rouge sulle
travi celesti.
Sarà una festa la
notte
le gesta.
*
Stacco la testa
alla sera
fanciulla dagli
occhi di brama.
Domani lezioni
di magia
la fantasia
dei giorni
uggiosi.
Sempre
sempre saremo una
festa per gli occhi degli altri.
Sempre saremo i
primi a saltare la cena.
Per fare l’amore
nei dormitori.
Nei parcheggi
per i camper.
A cavallo della
sera
che diventa
notte.
Giudizio
La
raccolta poetica che reca il titolo “L’abbraccio” è divisa in quattro sezioni, ciascuna delle quali reca come
incipit dei versi presi a modello da poeti vissuti a cavallo degli ultimi due
secoli: Dino Campana, Alda Merini, Emanuel Carnevali e Arthur Rimbaud. L’abbrivo delle voci poetiche dona alla
trama la vastità dell’atto che l’abbraccio rappresenta: protezione,
accoglienza, “ degli umili, degli emarginati, degli orfani, dei naufraghi, dei
folli, dei poeti, la lunga carezza dell’abbraccio.”
Quanto riportato tra virgolette è
l’invito che il poeta fa al lettore per soffermarsi sulla natura vera della
Poesia: “Aver fiducia nelle parole senza autorità. In fondo non c’è contentezza
nello scrivere senza quella fiducia un po’ folle che le parole arrivino
comunque a qualcuno (chissà dove, chissà quando). ”(Gianni Celati, “Consigli
per leggere le poesie” da: “Il corriere”, 2 giugno 2000). Prima delle parole
giunge il gesto più affettuoso che l’Umanità ha raggiunto: l’abbraccio. Il
Nostro attraverso questa raccolta scritta nel tempo quattro quarti
(musicalmente parlando) si è ispirato per la prima parte alla “ patria notte” ,
componendo alla maniera di Dino Campana nei Canti Orfici (del 1913) dove l’iterazione del tempo notturno
svela i retroscena del percorso tanto caro alla gioventù.
Oggi in molti definiscono “movida”:
questa vita notturna praticata dalla gioventù per sfuggire all’angoscia
del giorno e alla realtà che uccide sogni e speranze: “ Una lacrima appesa /
sul volto distratto / tra le rughe la vita / ricordo / ricatto. / La notte / bastone per lo zoppo / bicchiere di malto / caffè prima
del giorno. ” Ogni secolo ha domato i giovani con l’atrocità delle guerre o la
mancanza di lavoro. Ogni tempo degli uomini, ogni società che si definisca
tale, ha brutalmente assassinato l’originaria forza creativa dei giovani: “ Quello
che ci illumina dentro. / L’ombra che evochiamo / inutile mosca cieca col domani. / Un passato di speranza /
che ci rende prigionieri. / ” . Sono i meno giovani a gestire questo degradante
malessere convinti di detenere un potere che non possono lasciare.
La
notte , primo atto di questa commedia in versi, svela la violenza incontrollata
della bestialità degli uomini: “Angoli di strada / guardi sbocciare donne nella
notte / bambine un tempo / con
trecce inesatte / occhi di libertà / altalene nel vento / ritmo di una corsa
che le ha fatte invecchiare.” L’emigrazione si rivela negli addii notturni dei
treni che hanno cancellato la Civiltà Contadina: “Di notti / di consumati addii
/ dell’eterno ritorno / (…) / L’abbraccio / di contadine braccia / che la zappa
sostengono / che la terra
governano. / L’abbraccio di braccia di bronzo / intorno al torace del mondo.”
Il
secondo atto in versi prende forza dalla voce di Alda Merini, dalla febbre e
dal freddo, di un Inverno continuo vissuto con il genere umano: “ Quando sei nata io non c’ero / abitavo a due
passi dal cimitero. / Avevo sei fratelli di virtù / anime di paglia. / (…) Mio padre era nel sindacato /
combatteva una guerra di contratti. /
Nessuno sparava / eppure moriva un sacco di gente. / (…) Il tempo che
non rammenti / è la miglior vita
mai vissuta. (…) / E tu non nascerai mai più.” Il poeta racconta se stesso e
della famiglia, la figura paterna
emergerà nell’atto di protendere l’abbraccio per le persone che sono indicate
all’inizio.
Anche in questo secondo evento la forza
dei giovani viene piegata, piagata, da una croce imposta con la violenza: “ Un
giorno vidi tre angeli / capelli neve / la mappa delle rughe. / Parlavano
lingue d’amore / nessuno capiva.
/(…) / Qualcuno viene in mezzo a noi / e ci mette in guardia. / Il più delle
volte va a finire male. / Il più famoso l’hanno messo in croce./ (…) / Sono
tempi duri / per vivere nel grembo / di un sogno di nuda quiete. /”.
Nel terzo atto il dolore si trasforma in
rabbia, partendo dai versi di Emanuel Carnevali, dei poeti, degli antesignani,
di quanti amano gli spazi aperti abitati dalla Libertà: “ La rivolta delle
stelle / nella volta del cielo terrestre. / La fine del finesettimana /
l’Italia laica di dio. / Questa vita sta bene in divisa / si addice alla
povertà.” Come non rammentare gli scritti pasoliniani sugli scontri di piazza
nei moti sessantottini dove i celerini si scoprivano figli di contadini pronti
a picchiare gli studenti figli della stessa gente. Emerge così la storica
figura della “ Classe operaia va in Paradiso” film diretto da Elio Petri nel
1971 culmine di quel falso progresso di cui si ammantò l’Italia finita sui
banchi dei tribunali nell’era di “Mani Pulite”: “ La classe operaia sta ancora
aspettando il regno dei / Cieli./ ” . C’è il filo della continuità del padre
sindacalista nei versi del poeta che eterna la lotta: “(…) / Indissolubile
legame tra Bene e Male.”
Il
quarto e ultimo atto si affida ai versi di Arthur Rimbaud, non una resa, non la
fuga da tiranni e demoni, dalla superstizione o dalla falsa fede, ma la
saggezza nuova che i popoli devono assumere ascoltando la medicina della vita,
la Poesia, poiché: “ i poeti sono sciamani, preti, profeti, voci che si
innalzano in un canto post-rock, dove li raggiunge l’abbraccio di tutti i
martiri dell’apocalisse.” Un
finale carico di forte umanità, di vivida speranza, di sublimazione, dal sogno alla violenta realtà
quotidiana: “ Mentre dormiamo siamo perfetti. / Il sonno è la vita che vivemmo
mai. / Vivemmo sempre./” , nutrire il sogno con il concedere ai giovani un
ruolo attivo di libertà di scelte nella scuola, nel lavoro, nella società
organizzata: “(…) Dio è coscienza / ognuno di noi. / (…) Tu lo senti / parla
con la tua voce / ti dice non sei male. / Ma sei un killer / ti uccidi ogni
giorno. / (…)/ Non ti arrendi mai / a essere chi non sei. / Uccidi il bambino
che eri / vivi la vita di un altro. / Non tornerai mai indietro / a quelle
matite rosso fuoco / col fiocchetto blu sulla camicia bianca / e tanta desueta
speranza./ (…) E allora io spero tu non possa morire. / Io spero davvero tu non
riesca a morire”. Il tuffo nella parte perfetta di noi, l’infanzia, che ci
rende uomini nuovi dei Tempi da
formare, da condividere, da abbracciare. L’infanzia che uomini-eroi hanno
difeso sacrificando la propria esistenza per sottrarla al Potere occulto delle
classi dominanti, dell’offuscata sommità di questa maledetta Torre di Babele
che rinnova i suoi grandini con il sangue degli umili, degli emarginati, degli
orfani, dei naufraghi, dei folli, dei giudici e dei poeti, per raggiungere il
vertice acuminato dal quale guardare lo stesso mondo, dal quale parte la base
dell’Umanità.
I
versi di questa raccolta hanno fondamenti storici, sono
realizzati con il taglio breve; l’uso dell’enjambement li rende fluidi,
caustici; la similitudine è prevalente, accanto alle assonanze e alle
rime; le metafore si annodano a
qualche sinestesia; il racconto esercita il suo fascinoso viaggio nel lettore
accanto alla turbolente realtà. (Vincenzo D’Alessio)
Lettere a D.
di Alessandro Assiri (Terzolas, TN)
Alessandro Assiri è nato a Bologna nel 1962 da molti anni vive tra il Trentino Verona e
Bologna. Si occupa di arte e
promozione culturale, collabora a vario titolo a riviste e iniziative
letterarie. Nei comitati editoriali di Thauma edizioni come
responsabilie curatore di regione veneto e
nei comitati di lettura di Anterem Opera prima e Kolibris Edizioni. Curatore e teorico della letteratura.
Non parliamo mai a turno sovrapponiamo voci punteggiamo pause di rumore carichiamo di invettive la nostra reciproca disapprovazione
Facevi una vetrina coi tuoi sogni soggiornavi nelle tue regioni senza orizzonte chiamavi ogni cosa come da dietro una parete. Mi facevano sorridere le tue inutili manovre per rimediare a dei disastri sembravi un bambino che per pulire allargava la macchia un dito che stuzzicando allarga il buco. Restavamo sempre li come fossimo la prima parte di qualcosa da completare restavamo insieme per aspettare gli anni così come si aspettano le idee per sempre inconcludenti per timore di concluderci. Avevamo ancora un nome per ogni rivoluzione stavamo a margine di tutto con quel modo inconsueto che hanno solo i vecchi di rimanere in disparte le battaglie perdute in un mazzo di carte . (Lettere a D che non butta via niente)
Mi parlavi come se ti stessi pettinando riassumevi tutto anche quello che non ti dicevo e in qualche modo anticipavi e il resto era inferno in forma di memoria dove sprofondando raccontavi questo presente smarrito senza cambiamenti favolosi che fino a ieri immaginavi.
(Lettere a D con indosso i vestiti)
La destinazione ambigua del tuo vocabolario immettevi sempre frasi come fossero comparse di filmetti recitavi per tuo compiacimento una gamma smisurata di personaggi inesistenti li facevi durare il tempo breve delle sorprese e poi li sopprimevi di qualche morte ignobile come cavalieri senza gloria davi risalto a segreti risaputi difendevi cause perdute da tempo per l'ostinazione di evocare col colore le tue risposte insicure. Potevo leggerti in trasparenza ombre rigorose che rintracciavo nella violenza dei tuoi gesti gocciolanti di astratto, la pittura é selvaggia mi dicevi ma io credevo soltanto che fossero figure della nostra rinuncia che tornava alla luce (Lettere a D che danza a piedi scalzi)
Ti ritraggo meglio in aprile in uno dei nostri inferni moderatamente soleggiati coi piccoli fallimenti delle passioni raccontati come vita leggendaria. Potevo sentire tutto il tuo struggimento per le cose inutili per i labirinti in cui da sempre ti ritrovi per l'ossessione che coltivi da anni per il cinema tedesco e per il mio immaginario che da sempre tratti come ospite malato o come sradicato soccombente alla Bernhard di cui ti vanti sempre di possedere quasi tutto. Stendo grandi quantità di colore per la lista dei tuoi interpreti per i manifesti delle tue scene interiori per fermare i tuoi strilli sulla tela e i pantaloni a fiori che ti alzavano il culo quando qualcuno ti aveva immaginato femmina inventandosi un mondo (Lettere a D che ha imparato a restar vivo)
Interrompi sempre tutto in maniera molto netta l’esperienza quasi mai ti corrisponde alla parola inventi sempre differenze che ritieni decisive non ricordi quasi mai che è il silenzio che ci permette di parlare che è solo questo vuoto che va lasciato vuoto per potere rimanere perché se lo dovessimo riempire non saremmo in grado di metterci più nulla che non sia il sudore con cui abbiamo spremuto le nostre idee mai nate se avessimo soltanto saputo trasformare la prepotenza con cui affermavano i nostri tagli in atto poetico avremmo avuto almeno una stupenda storia di intervalli di pause d’aria sospesa(lettere a D in fuga dal rifugio)
Andavi avanti così due pensieri alla volta ti facevi scudo del fatto che sapevi che al di sopra di tutto io credo nell’incontro perché di ogni uomo sogno il successivo anche quando ti lasciavo esplodere scheggia di colore e di note o lampo da acchiapparsi al volo (lettere a D seduto sul muretto con le mani intrecciate)
In fondo mi accudisci in un modo che sarebbe piaciuto a uno qualunque dei tuoi cani nutrivi il mio piacere in modo articolato con bocconi e carezze mi sfamavi da un angolo con una ciotola di avanzi di te travestivi da aiuto le occasioni mancate e credo sia questo che non ti ho mai perdonato che ho sentito più grave dell'abbandono della casa di sabbia e di fogli (lettere a D che gioca con le biglie)
(…)
Giudizio
Poesia
in forma prosastica tecnicamente sorvegliata e dall’andamento ritmico quasi
ipnotico che si pone il difficile compito di affrontare un tema, il rapporto di
coppia, che raramente ha offerto capolavori. Ma l’autore convince, offrendoci,
attraverso l’artificio delle lettere scritte ad un amante che non è più tale uno
scorcio molto dettagliato di vita e il punto di vista privilegiato di un
osservatore acuto. L’altro è
analizzato, osservato con precisione chirurgica negli atti di una quotidianità
quasi banale, nelle sue manie, nei suoi vizi, nelle innumerevoli maschere
indossate. E non è difficile ritrovarsi almeno in alcuni di questi efficaci
ritratti. Del resto l’immedesimazione è uno degli obiettivi della buona
letteratura. Poesia efficace e pienamente contemporanea anche se non esente da
qualche (lieve) caduta di tono. (Davide Valecchi)
La Cantabrica folle di Giulio Maffii
Giulio Maffii ha diretto la Collana di Poesia Contemporanea e
plaquette per le Edizioni Il Foglio e svolge opera di traduzione poetica. È
stato uno degli organizzatori italiani del festival mondiale Palabra en el
mundo. Ha scritto articoli critici sulla poesia del Novecento. Ha all’attivo
diverse pubblicazioni tra cui L’umiltà
del poco (2010 Akkuaria) e L’odoreamaro delle felci (2012 Ed.della Meridiana) con cui ha vinto il premio
Sandro Penna per l’inedito e Agli zigomi
delle finestre (2013 E.P.C). Nella sua produzione c’è anche la raccolta di
racconti La caduta del tempo (2008 Il Foglio). Suoi lavori sono stati
tradotti in spagnolo, inglese e romeno. Nel 2013 è uscito per Marco Saya Edizioni il saggio breve
Le mucche non leggono Montale,
una corrosiva visione del mondo poetico Nel 2014 dopo aver vinto il Premio
Castelfiorentino con Arische rasse– Novella di guerra, poemetto sulla guerra tratto da una storia
vera, ha pubblicato sempre per Marco Saya
Edizioni Misinabì sua ultima opera poetica. Sempre nel 2014 un suo saggio
“L’Io cantore e narrante dagli aedi ai
poeti domenicali: orazion picciola sulla parabola dell’epos” è stato
pubblicato da Bonanno Editore nel
volume Con gli occhi di Giano. Narrazioni
e unità delle scienza umane che racchiude gli atti dell’omonimo Workshop
tenutosi a Firenze, a cura dell’antropologo Paolo Chiozzi, di cui Maffii è
stato a lungo allievo e collaboratore. Collabora con la rivista «Carteggi
Letterari».
Plaza de Cataluña si svolge qui la non azione davanti la chiesa di
San qualcuno. Lo sbirro euskaro lancia i suoi occhi scuri più delle nuvole
basche. Qualche passante dall’odore di oceano scaglia tetragrammi
impronunciabili. Il cinese del negozio all’angolo sorride per un senso senza
senso. La cantabrica folle vende santini e racconta indizi tanatologici.
La matrice degli
eventi
è qui attaccata alla facilità delle cose
Ho rovi al posto delle mani
L’inverno è la mia paura
in inverno si deve raccontare la verità
Ci sentiamo così importanti
nella diseguaglianza dei vestiti
è qui attaccata alla facilità delle cose
Ho rovi al posto delle mani
L’inverno è la mia paura
in inverno si deve raccontare la verità
Ci sentiamo così importanti
nella diseguaglianza dei vestiti
A Maria Pilar G. y L.
che forse vende santini e storie
davanti la chiesa di S.Ignacio a Donostìa
che forse vende santini e storie
davanti la chiesa di S.Ignacio a Donostìa
In calle Zabaleta avvicinandosi a Plaza de Cataluña con un tavolo pieghevole
domenica mattina
Siamo nella terra dei
suicidati
dove il cuore dei morti ricompone
un frammento unico (una grammatica)
quando le mani escono dal pianto
madre madre
non mi riconosci
nel gomitolo di rughe
e mi neghi l’esistenza
Vedo la catabasi negli occhi
da cui ho esplorato il mondo
prima di essere me
Lo senti come preme questo sasso
pronto a dilaniare senza spazio
la nostra gola
Qualcuno
- noi siamo qui-
continua a chiamarmi
Si sono rotti gli orli
e il peso ci trascina indietro
dove il cuore dei morti ricompone
un frammento unico (una grammatica)
quando le mani escono dal pianto
madre madre
non mi riconosci
nel gomitolo di rughe
e mi neghi l’esistenza
Vedo la catabasi negli occhi
da cui ho esplorato il mondo
prima di essere me
Lo senti come preme questo sasso
pronto a dilaniare senza spazio
la nostra gola
Qualcuno
- noi siamo qui-
continua a chiamarmi
Si sono rotti gli orli
e il peso ci trascina indietro
Ad ogni passo
incontro per strada
quelli della mia età
e domando loro
se ci siamo mai conosciuti
e non decifro il codice a barre
tra le pupille
Vado chiedendo un riconoscimento
degli anni attraversati
una semplice verità
una parola di conforto
per quello che non ho mai fatto
quelli della mia età
e domando loro
se ci siamo mai conosciuti
e non decifro il codice a barre
tra le pupille
Vado chiedendo un riconoscimento
degli anni attraversati
una semplice verità
una parola di conforto
per quello che non ho mai fatto
Giudizi
La
raccolta si apre con la descrizione della Plaza de Cataluña dove le persone si
incontrano e “la vita si umanizza e cerca l’atto nelle parole”. Con un
andamento veloce e surreale la raccolta mette davanti al lettore quadri vivaci e suggestivi. (CaterinaCamporesi)
Un bel dialogo interiore tra l’occhio che osserva e
parla e il mondo che scorre intorno, centrato come unità di luogo
nell’antipiazza di una chiesa. Un atto di fede nell’esistenza delle cose che
invita ad accorgersi di sé e del dono che si è: «Gli indomenicati dal volto di
sorba / potrebbero ricordarsi di tanto in tanto / di essere felici/ perlomeno
unici / Silenzio / un atto di intimidazione / – non siamo necessari al mondo – /
facciamo reliquia della nostra memoria / non guarigione o assenza del presente/
l’apparenza trafugata in sottofondo». (Daniele Gigli)
Oltremisura
di Luciana Raggi (Roma)
Luciana Raggi, nata a Sogliano al Rubicone (FC) nel 1954, laureata presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, vive ed insegna a Roma dal 1976. Ha pubblicato nel 2010, come utente del sito www.ilmiolibro.it Sorsi di sole ( Poesie) e Un bastimento carico di (Racconti e poesie). Ha curato la pubblicazione di At vlèm bèn, zirudèli in romagnolo di Decio Raggi. Partecipa a varie rassegne di poesia e scrittura contemporanea. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti fra cui il primo premio ai seguenti Concorsi Internazionali di poesia: “Il Tiburtino” nel 2012, “Aicab summer poetry” nel 2013, “Aicab tea poetry”(1° premio della critica) e “Orazio” nel 2015. Le sue poesie sono state pubblicate in 42 antologie curate dalle case editrici Perrone, L’Erudita, Edizioni Progetto Cultura, Aletti, Il Ponte Vecchio.
Forse
Bianco
Sto qui
fra riga e riga
senza distanze.
Sto qui
qui a guardare il bianco:
nomade
tra le parole dette
e quella che mi tace dentro.
Ero torta, ero divano
Ero torta, ero divano.
Agghindata
profumata
animale da compagnia.
Non mi nutriva con le parole.
Padrone dei miei giorni senza sole
mi vezzeggiava
ma non mi amava.
Ero torta, ero divano.
Ero nella distanza
Ero nella mancanza
Ero senza memoria di me.
Forse non ero.
Al bivio
su strade di calde
evidenze.
Solo frammenti d’infinito
davanti al forse di ogni
bivio
dove lunghe attese
per eccessivi dubbi
hanno accresciuto la
febbre
raffreddato le speranze.
Mille soste attonite.
Ripensamenti.
Mille scommesse in
agguato.
Ansie sciolte
da vincoli e angusti
spazi.
Forse non ho abbastanza
cercato
cammini rettilinei
disperso il tempo in
labirinti
da me stessa generati
Scelte provvisorie al
bivio
fatte distrattamente
seguendo impronte
labili di pensieri
che non erano miei
pensieri.
Così
la mia strada
non l’ho ancora trovata.
Esploratore
Esploratore del buio
fruga frammenti senza futuro
scompone
la sintassi del mondo.
Nel silenzio
ai margini della memoria
riposano
voci e sussurri
sensori del tempo.
Scuotono certezze.
Lontano dal fragore
delle falsità
fruga fra schegge
d’incerta realtà.
Ai margini della memoria
un uomo un gioco
sensori del tempo.
Scuotono il presente.
Fra respiri d’attesa
senza più sfide
fruga nel buio
fra ombre trasparenti
fruga frammenti
senza futuro
(…)
Giudizio
La
poesia oggi ha raggiunto un punto orizzontale dove l’Io poetico affronta i
livori dell’esistenza, la percezione quotidiana del finito, l’intensità
malefica del possesso e dell’annullamento. La raccolta Oltremisura partendo dalla fonte personale affronta il percorso
difficile della salita verso i punti verticali, le cime tempestose, dove le
passioni disilludono, i sensi non sostengono, i sogni si infrangono contro la
barriera del Tempo. La poeta inizia il cammino/ racconto con la poesia Bianco che potrebbe essere
avvicinata alla voce del Nobel
Salvatore Quasimodo della poesia Ed è
subito sera. La Nostra scrive: “Sto qui / fra riga e riga / senza distanze.
/ Sto qui / qui a guardare il bianco: / nomade / tra le parole dette / e quella che mi tace dentro”. L’anafora
sprigiona l’egemonia del luogo atemporale; il colore bianco risveglia l’energia
della purezza, la verginità della mente e del foglio dove riversare la parola;
la forza della poesia è nella mediazione tra il suono e l’immaginazione, la
sospensione e la Creazione che si rivela nel silenzio, inaspettata l’acqua
dell’esistenza scorre a superare i secoli con lo sguardo. Noi siamo nomadi,
imperfetti e nostalgici, costretti a comprendere in ritardo le profezie dei
poeti, i deliri degli assassinati per le idee, le violenze subite da chi apre
le stanze alla luce del sole: “(…) I ragazzi, a valle, / non lo vedono: / hanno
negli occhi frammenti / in divenire / abbracciano l’attimo / non cercano altro
/ ma l’indicibile dell’esistenza / li aspetta”. La poesia non ha un ruolo nella
Storia della società contemporanea, proprio quando sembra fiorire in mille
cenacoli, in migliaia di voci, in una infinità di incontri. Per la Nostra la
poesia potrebbe rivelarsi “(…) la voce / senza traduzione.”, proprio come
avviene oggi. Allora oltre al dolore personale per l’impossibilità della
condivisione reale, sincera, sentita, la poeta rivela al lettore l’amaro “Sale
della mia terra” (che è poi la terra di ognuno di noi): “Al seno di tua madre /
senza distanze / hai quanto basta / senza spazio / senza tempo / senza memoria
/ non dissipi calore. / (…) Dove sono ora / ho quanto basta: / un battito di
vita / uno sguardo che colora il mondo / e i miei anni / diventano leggeri. / Ho
te / sale della mia terra.” (Vincenzo D’Alessio)
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