recensione di Laura Corsini pubblicata in
anche ne ilciottolo.blogspot.it
Guardare la vita altrui dal buio, quante volte lo abbiamo provato? In una sera smarrita desiderare panni più semplici e un guizzo di gioia che non ci appartiene. Così Angela Caccia con Il tocco abarico del dubbio ci introduce con garbo nel suo mondo, mentre le piume sbatacchiate di un uccello rendono l’anima partecipe e profonda nel mistero della vita e del dolore. Ma per la poetessa anche il dolore può diventare compagno di viaggio, animale da compagnia che non si è cercato ma a cui infine ci si affeziona tanto da dargli un nome.
Con un linguaggio ermetico e ricercato, termini preziosi, un periodare franto, permeato di sentimento che non parla quindi alla ragione ma direttamente all’anima (Poesia è quella parola che, per fortunate o abili combinazioni, dà più di quanto dice), Angela ci racconta di sé, di quel sentire sempre la presenza del mare, in un gabbiano, una conchiglia dalla voce di vento, ma anche in un barcone affondato e in spoglie che faranno parte di quel grande abisso, mute. E poi fiori tristi, misti all’asfalto, e l’amarezza al pensiero di aver sprecato l’amore in una fragilità dell’esistenza che fu nota fin dall’antico a filosofi e poeti, finché Ungaretti, riprendendo antichi cantori, ci paragonò alle foglie.
“Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;
le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva
fiorente le nutre al tempo di primavera.
Così le stirpe degli uomini: nasce una, l’altra dilegua.”
(Mimnermo)
Ed è proprio in questa fragilità che ci si aggrappa all’amore, al sentimento, semplicemente per sentir qualcuno condividere il nostro destino di esseri mortali, destinati alla terra. Fato condiviso anche da un cane che sta morendo, da un Cristo sofferente che indica la via per la resurrezione e da un’amica, che, si spera fino all’ultimo, la morte pietosa possa lasciar tornare. La natura è anch’essa certezza di bellezza, altra via di fuga insieme alla memoria che invade ogni spazio, anche quello “abarico”, senza atmosfera né peso, lo spazio sospeso tra ieri e domani, un oggi scialbo, incolore. In questi versi ritroviamo omaggi a pittori come Picasso e Cézanne, musicisti come Debussy, un fugace rimando a Proust e la sua madeleine, ma anche alla grecità, con la Pizia e Medusa anguicrinita, e alla latinità nell’etimologia di ab solutus. Ma tali gioielli colti ed elevati non distanziano il lettore, perché l’autrice lo sa ammaliare con la musica delle parole, con quei "brillano vibrisse" e "calli di lana".
Un libro di poesie davvero curato in ogni particolare, che offre ad ogni persona che vi si accosterà qualcosa di diverso, proprio perché non si rivolge alla ragione ma è uno shock che, attraverso la pelle, raggiunge nervi e vene.
Con un linguaggio ermetico e ricercato, termini preziosi, un periodare franto, permeato di sentimento che non parla quindi alla ragione ma direttamente all’anima (Poesia è quella parola che, per fortunate o abili combinazioni, dà più di quanto dice), Angela ci racconta di sé, di quel sentire sempre la presenza del mare, in un gabbiano, una conchiglia dalla voce di vento, ma anche in un barcone affondato e in spoglie che faranno parte di quel grande abisso, mute. E poi fiori tristi, misti all’asfalto, e l’amarezza al pensiero di aver sprecato l’amore in una fragilità dell’esistenza che fu nota fin dall’antico a filosofi e poeti, finché Ungaretti, riprendendo antichi cantori, ci paragonò alle foglie.
“Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;
le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva
fiorente le nutre al tempo di primavera.
Così le stirpe degli uomini: nasce una, l’altra dilegua.”
(Mimnermo)
Ed è proprio in questa fragilità che ci si aggrappa all’amore, al sentimento, semplicemente per sentir qualcuno condividere il nostro destino di esseri mortali, destinati alla terra. Fato condiviso anche da un cane che sta morendo, da un Cristo sofferente che indica la via per la resurrezione e da un’amica, che, si spera fino all’ultimo, la morte pietosa possa lasciar tornare. La natura è anch’essa certezza di bellezza, altra via di fuga insieme alla memoria che invade ogni spazio, anche quello “abarico”, senza atmosfera né peso, lo spazio sospeso tra ieri e domani, un oggi scialbo, incolore. In questi versi ritroviamo omaggi a pittori come Picasso e Cézanne, musicisti come Debussy, un fugace rimando a Proust e la sua madeleine, ma anche alla grecità, con la Pizia e Medusa anguicrinita, e alla latinità nell’etimologia di ab solutus. Ma tali gioielli colti ed elevati non distanziano il lettore, perché l’autrice lo sa ammaliare con la musica delle parole, con quei "brillano vibrisse" e "calli di lana".
Un libro di poesie davvero curato in ogni particolare, che offre ad ogni persona che vi si accosterà qualcosa di diverso, proprio perché non si rivolge alla ragione ma è uno shock che, attraverso la pelle, raggiunge nervi e vene.
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