mercoledì 6 maggio 2015

Mario Fresa: Ritratti di poesia (34)




Noi che precipitiamo
di Mario Fresa



Nella metafora magrittiana di La reproduction interdite, una figura umana è posta davanti a uno specchio, e misteriosamente dà le spalle a chi osserva il quadro. La sagoma scura, annullandosi nella sua acuta frontalità oppositiva, attraversa l’immagine trasparente di se stessa, moltiplicandosi in un’eco visiva che produce una irreale torsione dello sguardo: in questo modo, la visione della figura che s’illude di specchiarsi genera una perdita progressiva dell’identità del soggetto rappresentato (provocando sconcerto e disorientamento nello stesso spettatore). Il corpo è visto come una scena moltiplicata, come un segno iconico paradossale che ripete,  con ossessione, l’unica azione che gli è consentita: registrare la propria mancanza. Quella figura nega, in ogni istante, il tempo del proprio esserci, mettendo in scena il dramma della labilità e della ininterrotta e inarrestabile frantumazione dell’essere.
La scrittura poetica disegna un’esperienza non dissimile. Chi si affida a un verso per l’interrogazione del mondo, vuole fermare, fissandolo una volta per tutte, il volto stesso della realtà, ma non fa altro, in verità, che cercare di trattenere, con affanno,  lo scorrere dell’acqua tra le sue dita, la sua incontrastabile inanità: e così, paradossalmente, egli non può che testimoniare il vuoto, non può che dire nulla: e la direzione del suo cammino affonda, senza fermarsi mai, nella constatazione della fine e dello sperdimento, dello sbriciolamento e della sottrazione.
La parola poetica, perciò, documenta l’affacciarsi costante di una presenza ch’è prossima sempre a disfarsi e a venir meno: e la sua lingua ripete l’impossibilità di nominare o di descrivere un’azione, perché questa rimane inchiodata al suo essere (e al suo continuo ritornare ad essere) un grande nulla: e la poesia è costretta, in definitiva, a offrire una totale esposizione del nostro essere-per-scomparire.
Così il mondo osservato dal poeta si rivela, semplicemente, con l’aspetto di una pellicola deperibile, di un vago simulacro, di un diagramma sottile che agli occhi impone l’insistenza dolorosa di una prossima, insanabile dissoluzione.
La poesia inscena e racconta il tempo della mancanza e dell’assenza. Come il personaggio del dipinto magrittiano, ci illudiamo di essere qualcosa: specchiandoci, notiamo che il nostro volto non esiste, e che non possiamo in alcun modo assicurare di poter pronunciare la parola «io».
In Misinabì di Giulio Maffii (Marco Saya editore, 2014) il concetto di poesia come rilevazione della vanità dell’esserci è esposto con una chiarezza disarmante, nella quale non trovano ricetto alcuno la retorica dei toni assertivi o assolutistici: tutto è mostrato con l’illuminata distanza di chi ha attraversato l’intera esistenza e ne ha saggiato l’inconcludenza e l’insipienza. La poesia di Misinabì è una sorta di grande prosopopea: vi leggi versi che sembrano prorompere non già da chi si illude di esser vivo, ma da chi ha già preso coscienza della necessità di identificare l’esserci con lo svanire. La verità è semplice e terribile: noi non siamo, e non possiamo dir nulla (ma nemmeno possiamo pensare di essere un nulla, perché lo stesso pensare significherebbe essere almeno qualcosa). I fatti, gli accadimenti (anche i più banali, i più quotidiani) parlano a noi con la stessa sostanza di che sono formate la comparizione fantasmatica di Banquo o il flebile e oscuro vocìo del Coro dei morti del famoso dialogo leopardiano.
Per Maffii, dunque, non c’è nessun riscatto “ierofanico” nella visione delle cose o nella comunicazione delle parole: le cose che si mostrano non rimandano ad altro (tantomeno a una significanza sacra, metafisica, ideale), e certificano, finalmente, soltanto il loro sordo risuonare, il silenzio che le imprigiona e le cancella. L’unico movimento che possiamo, forse, rilevare, è quello della discesa: non si procede, né si arretra (anche il tempo e lo spazio sono illusioni, immaginose e vane ragne della mente), ma si precipita, si precipita, si precipita: dal vuoto verso il vuoto.
La stessa parola, fondata sempre sulla cagionevolezza della propria costante imperfezione (la parola non è mai la cosa), annuncia la sola realtà di cui possiamo prendere atto: quella della mancanza e dell’assenza di ogni arché costitutivo.
La scrittura di Giulio Maffii mostra, allora, una visione chiusa nell’abisso di una realtà che manca a se stessa, rammentando, a chi finge di esserci (o di “avere” un io) e a chi pensa di poter guardare qualcosa (e che non sa di esser cieco; o meglio, non sa di essersi lui stesso accecato), che l’identità non è nient’altro che un’impostura o un’utopia, e che fallimentare e inconcludente è la nostra volontà di catturare il senso dell’esistenza con il tramite della stessa parola.





Tre testi tratti da Misinabì:

*
Benvenuto straniero in questi posti
regno di Beulah o nome stesso
la distruzione del vuoto
un’altra saracinesca
figlia della ruggine si abbassa
partout dans les salons au thèatre à l’èglise
l’unica identità della parola
è nella parabola dei ciechi
tutto evapora
dal padre al sostantivo
I morti sono ancora il terzo pedale
restano chiusi in sordina
e di notte mangiano frutta
-mi hai costretto a parlare
sei tu la tua rovina-
tutto evapora
nell’asimmetria che ci avvicina

*
L’errore è dentro noi nelle parole
negli eventi nelle liste programmatiche
Siamo un prestito del tempo
le tre colonne del tempio?
siamo mercanti adoratori
la sconfitta di qualsiasi dio
siamo la terra guasta dentro la grondaia
il fine ultimo della nuvola
il grido dell’albero che esce dalla radice
siamo e fummo
perche il verbo non ha desinenze
quando e fuori dalla grammatica vivente
e poi scendemmo ancora mentre


*
Siamo milioni in questo vuoto
così goffi tra regole
labirinti silenzi e graffi
Respiriamo il santo della cruna
la tassonomia del caso
e di bruma in bruma attendiamo
qualcuno una svolta
altri una generica attenzione
Senza luogo accadono sulla terra
persuasioni indelebili verità
L’albero il sole il biondo dei capelli
in quali pieghe contorte
il vuoto delle porte i terrapieni
le pietre acquietano gli orpelli
s’addensano giorni e licheni
Non scorre la gora secca che nutre
il sottobosco il precipizio la forra
tra quando scendi e quando torni