Noi che precipitiamo
di Mario Fresa
Nella metafora magrittiana di La reproduction
interdite, una figura umana è posta davanti a uno specchio, e misteriosamente
dà le spalle a chi osserva il quadro. La sagoma scura, annullandosi nella sua acuta
frontalità oppositiva, attraversa l’immagine trasparente di se stessa,
moltiplicandosi in un’eco visiva che produce una irreale torsione dello sguardo: in questo modo, la visione della figura che
s’illude di specchiarsi genera una perdita progressiva dell’identità del
soggetto rappresentato (provocando sconcerto e disorientamento nello stesso
spettatore). Il corpo è visto come una scena moltiplicata, come un segno iconico paradossale
che ripete, con ossessione, l’unica
azione che gli è consentita: registrare la propria mancanza. Quella figura nega, in ogni istante, il tempo del proprio
esserci, mettendo in scena il dramma della labilità e della ininterrotta e inarrestabile
frantumazione dell’essere.
La scrittura poetica disegna un’esperienza non dissimile. Chi si affida
a un verso per l’interrogazione del mondo, vuole fermare, fissandolo una volta
per tutte, il volto stesso della realtà, ma non fa altro, in verità, che cercare
di trattenere, con affanno, lo scorrere
dell’acqua tra le sue dita, la sua incontrastabile inanità: e così, paradossalmente,
egli non può che testimoniare il vuoto, non può che dire nulla: e la direzione del suo cammino affonda, senza fermarsi mai,
nella constatazione della fine e dello sperdimento, dello sbriciolamento e
della sottrazione.
La parola poetica, perciò, documenta l’affacciarsi costante di una
presenza ch’è prossima sempre a disfarsi e a venir meno: e la sua lingua ripete
l’impossibilità di nominare o di descrivere un’azione, perché questa rimane
inchiodata al suo essere (e al suo continuo ritornare
ad essere) un grande nulla: e la poesia è costretta, in definitiva, a offrire una
totale esposizione del nostro essere-per-scomparire.
Così il mondo osservato dal poeta si rivela, semplicemente, con l’aspetto
di una pellicola deperibile, di un vago simulacro, di un diagramma sottile che agli
occhi impone l’insistenza dolorosa di una
prossima, insanabile dissoluzione.
La poesia inscena e racconta il tempo della mancanza e dell’assenza. Come
il personaggio del dipinto magrittiano, ci illudiamo di essere qualcosa:
specchiandoci, notiamo che il nostro volto non esiste, e che non possiamo in
alcun modo assicurare di poter pronunciare la parola «io».
In Misinabì di Giulio Maffii
(Marco Saya editore, 2014) il concetto di poesia come rilevazione della vanità
dell’esserci è esposto con una chiarezza disarmante, nella quale non trovano
ricetto alcuno la retorica dei toni assertivi o assolutistici: tutto è mostrato
con l’illuminata distanza di chi ha attraversato l’intera esistenza e ne ha
saggiato l’inconcludenza e l’insipienza. La poesia di Misinabì è una sorta di grande prosopopea:
vi leggi versi che sembrano prorompere non già da chi si illude di esser vivo,
ma da chi ha già preso coscienza della necessità di identificare l’esserci con lo svanire. La verità è semplice e terribile: noi non siamo, e non possiamo
dir nulla (ma nemmeno possiamo pensare di essere un nulla, perché lo stesso pensare significherebbe essere almeno qualcosa). I fatti, gli accadimenti (anche
i più banali, i più quotidiani) parlano a noi con la stessa sostanza di che
sono formate la comparizione fantasmatica di Banquo o il flebile e oscuro vocìo
del Coro dei morti del famoso dialogo
leopardiano.
Per Maffii, dunque, non c’è nessun riscatto “ierofanico” nella visione
delle cose o nella comunicazione delle parole: le cose che si mostrano non rimandano
ad altro (tantomeno a una significanza sacra, metafisica, ideale), e certificano,
finalmente, soltanto il loro sordo risuonare, il silenzio che le imprigiona e
le cancella. L’unico movimento che possiamo, forse, rilevare, è quello della discesa: non si procede, né si arretra (anche
il tempo e lo spazio sono illusioni, immaginose e vane ragne della mente), ma
si precipita, si precipita, si precipita: dal vuoto verso il vuoto.
La stessa parola, fondata sempre sulla cagionevolezza della propria costante
imperfezione (la parola non è mai la cosa), annuncia la sola realtà di cui
possiamo prendere atto: quella della mancanza
e dell’assenza di ogni arché costitutivo.
La scrittura di Giulio Maffii mostra, allora, una visione chiusa
nell’abisso di una realtà che manca a se
stessa, rammentando, a chi finge di esserci
(o di “avere” un io) e a chi pensa di poter guardare qualcosa (e che non sa
di esser cieco; o meglio, non sa di essersi lui
stesso accecato), che l’identità non è nient’altro che un’impostura o un’utopia,
e che fallimentare e inconcludente è la nostra volontà di catturare il senso
dell’esistenza con il tramite della stessa parola.
Tre testi tratti da Misinabì:
*
Benvenuto straniero in questi posti
regno di Beulah o nome stesso
la distruzione del vuoto
un’altra saracinesca
figlia della ruggine si abbassa
partout dans les salons au thèatre à
l’èglise
l’unica identità della parola
è nella parabola dei ciechi
tutto evapora
dal padre al sostantivo
I morti sono ancora il terzo pedale
restano chiusi in sordina
e di notte mangiano frutta
-mi hai costretto a parlare
sei tu la tua rovina-
tutto evapora
nell’asimmetria che ci avvicina
*
L’errore è dentro noi nelle parole
negli eventi nelle liste programmatiche
Siamo un prestito del tempo
le tre colonne del tempio?
siamo mercanti adoratori
la sconfitta di qualsiasi dio
siamo la terra guasta dentro la grondaia
il fine ultimo della nuvola
il grido dell’albero che esce dalla radice
siamo e fummo
perche il verbo non ha desinenze
quando e fuori dalla grammatica vivente
e poi scendemmo ancora mentre
*
Siamo milioni in questo vuoto
così goffi tra regole
labirinti silenzi e graffi
Respiriamo il santo della cruna
la tassonomia del caso
e di bruma in bruma attendiamo
qualcuno una svolta
altri una generica attenzione
Senza luogo accadono sulla terra
persuasioni indelebili verità
L’albero il sole il biondo dei capelli
in quali pieghe contorte
il vuoto delle porte i terrapieni
le pietre acquietano gli orpelli
s’addensano giorni e licheni
Non scorre la gora secca che nutre
il sottobosco il precipizio la forra
tra quando scendi e quando torni