lunedì 25 maggio 2015

Il tocco abarico del dubbio di Angela Caccia

recensione di Teresa Armenti

Icastica, profonda e provocatoria.
Originale, cesellata e diafana.
Densa di vibrazioni.




Così si presenta l’ultima fatica letteraria della poetessa Angela Caccia, pubblicata da Alessandro Ramberti di Rimini. Il titolo Il tocco abarico del dubbio è suggestivo, incuriosisce e mi spinge a porre mano al vocabolario o, per essere più veloce, ad una ricerca su Google. Mi viene, però, in soccorso la puntuale e completa prefazione di Anna Maria Bonfiglio che dà una spiegazione esauriente del punto abarico: quella zona in cui le forze gravitazionali terrestri e lunari si annullano a vicenda generando un punto zero, dove si inserisce il dubbio. Il dubbio, che ha appassionato scrittori come Luciano De Crescenzo, viene considerato un buon amico, una divinità che bussa con gentilezza alla porta di ognuno e chiede di essere ascoltata. La Nostra ne ha percepito i colpi e si è messa in movimento, permeando i suoi versi di appassionanti e misteriosi interrogativi.
Dalle pagine del florilegio, un misto di poesia e prosa, ci vengono incontro le onde del mare crotonese, che si infrangono su filigrane di cristallo, con una sonorità chiara e una nota cupa, il volo dei gabbiani, i biondi campi di grano, il fruscio degli ulivi, i sentieri di rose canine sorvegliati da un cielo a scacchi. In questo incantevole paesaggio calabrese, colorato di azzurro, trascorre il suo tempo la poetessa, si immerge nel chiaroscuro del bosco, perdendosi nei gomitoli di sogni e nella musica di Debussy. Sorvegliata dalla luna, si lascia cullare dal mare, spettinare dal vento; affida alle parole il suo dolore, sospeso senza forma, per la scomparsa delle persone care, che sarà altrove nell’incavo di mani più grandi. E il dubbio l’assale per la morte non solo dei suoi cari ma anche dei numerosi naufraghi di Lampedusa se chi muore chiede conto della propria morte a chi resta. Il dubbio subentra anche quando si rimane feriti nell’amore, quando c’è contrasto tra madre e figlio. Di notte l’altra parte dell’io si toglie la pelle del giorno e si aggira in libertà vigilata in un tempo senza binari. La solitudine l’avvolge aspettando, con l’anima rovesciata a terra, che l’alba si allarghi e si stenda nel cuore. Si rifugia nei sogni leggendo Rainer Maria Rilke, per sperdersi, alla maniera di Leopardi, nel suo mare. Si consola con Pablo Neruda, i cui versi ronzano ancora come sciami; con Margherita Guidacci, accomunate entrambe dall’inquieto amore; dà pennellate alla Cézanne, senza trascurare De Chirico e Picasso.
Sembra che le sue poesie, suddivise in cinque sezioni, siano pensieri sparsi, ma ovunque si respira la filosofia dell’esserci di Heidegger, secondo il quale l'esistenza umana significa essenzialmente trascendenza, protesa, però, allo stesso tempo verso il mondo, al fine di modellarlo e progettarlo. Si avverte una continua ed affannosa ricerca nel prendere coscienza che la crescita è un gioco di ombre, il pedaggio per modellarsi la vita; che la sua terra di dolcezze amare, è radici senza più fiore, osservando l’onda che resse zattere e valigie di cartone. C’è sempre una dualità di elementi in contrapposizione fra loro: Alba/tramonto. Luna/sole. Sera/mattino. Vita/morte. Secco/fiorito. Luci/ombre. Razionalità/sentimento. Molte sue riflessioni sono perle di saggezza, diventano aforismi da trascrivere con cura e sottoporre a meditazione.
Molti gli interrogativi sul senso della vita in attesa di risposte. Solo la fede in Cristo, morto sulla croce e risorto, può far guadagnare occhi nuovi per guardare al di là del cielo, abbracciando la propria croce per una nuova rotta.

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