mercoledì 1 aprile 2015

Maria Lenti su E’ cino la gran bòta la s-ciuptèda di Gianfranco Miro Gori

recensione di Maria Lenti pubblicata ne «La terrazza», rivista di letteratura e ricerca, delle Edizioni Letterarie Novecento, n. 7, dicembre 2014). 
Si ringrazia l'Autrice, la redazione e il direttore Renato Pennisi.



Gianfranco Miro Gori, E’ cino la gran bòta, la s-ciuptèda, Prefazione di Ennio Grassi, Rimini, Fara 2014, pp. 85, 
€ 11,00

Ciascun poeta romagnolo dialettale del secondo Novecento, ha non solo un suo stile – la qual cosa lo fa, appunto, poeta –  ma un proprio mondo da dire in versi. Un mondo di sentore  trascorso (non finito): le strade bianche dei paesi, la gente in piazza a raccontarsi e, a volte, a inventarsi, gli anni di un’età chiara di intenti e di futuro seppure con il carico di un esito incerta. Un credere nelle aperture, il “sempre” nelle amicizie e nelle cose da godere. Un mondo racchiuso nel proprio mondo: per storia collettiva  e vicenda personale, sarebbe debordato altrove, ingrandito sì, non in via di sparizione, riconoscibile.
In diversa misura i versi di Tonino Guerra, Tolmino Baldassari, Raffaello Baldini, Giuliana Rocchi, Nino Pedretti, Walter Galli, Gianni Fucci, altri della stessa generazione,  si dipanano su tali strade. (Diversità nella generazione che li segue. Per esempio il “corale” distaccato di Gianfranco Miro Gori; Giovanni Nadiani, dentro le interruzioni, i mancati salti  del nostro tempo; Annalisa Teodorani, su un quotidiano fatto simbolo esistenziale). Nella lingua propria a ciascuno, qualche volta prevale la nostalgia, talaltra la constatazione asciutta, talora il desiderio di ritorno pur nel cambiamento. (Un’autocitazione: ho raccolto gli scritti (1994-2013) su questi poeti in Cartografie neodialettali. Poeti di Romagna e d’altri luoghi, Pazzini 2014, a cura di Gualtiero De Santi).
La medesima “concentrazione” anche in Gianfranco Miro Gori, che si affida all’epico-narrativo, ravvisabile già in Cantèdi  (2008) e anche nell’ultimo, intenso,  E’ cino la gran bòta, la s-ciuptèda. Il titolo denota il tono. Il cinema era il cinema fuori di casa, tanti film, prima del film in dvd e del digitale: «Te pròim / i film i era zóp  d arzént, / pu i à impasté sla celulòide, / dòp i à scrichì t un casitina / e ancòura  d piò t un dés-ch / znin e stil, / adès  i viaza t l’aria /  cmè  al lòzli» (In principio / i film erano pieni d’argento, / poi li hanno impastati con la celluloide, / dopo li hanno schiacciati in una cassettina / e ancora di più in un disco / piccolo e sottile, / adesso viaggiano nell’aria / come le lucciole). Il gran botto è stata la deflagrazione che ha spazzato via di getto migliaia di anni  che «i andéva éulta: zantnéra, miéra, / migliéun ad an, e u n cambiava  gnént» (andavano avanti: centinaia, migliaia, / milioni di anni, e non cambiava niente). La schioppettata è l’essere uno di fronte all’altro di Pascoli e dell’assassino del padre, nel racconto di ciascuno (“E’ mort  mazè” e “L asasòin”). Le ragioni dell’uno, quelle dell’altro e la  crudeltà.
Il cinema suscitava fantasie diverse e invogliava a vivere, ricercandola, la vita. Il gran botto ha tacitato l’innocenza e la comunità di uomini, animali, piante. La schioppettata ha rivelato  la verità di un delitto punito nell’esecutore e impunito nei mandanti.
La differenza scritturale (versi e strofe brevi di E’ cino; oltre l’endecasillabo in la gran bòta; poemetto la s-ciuptèda) conferma il tono: reso leggero e arioso in quel “giro di vento” del cinema di anni prima della “trasformazione” (anche individuale, dell’uscita dal cerchio della giovinezza); poi fatto più grave nella accelerazione della vita dopo la “botta” (l’informatica: ha spazzato e spezzato il legame tra ieri e oggi); infine contenente il racconto non interagente di Ruggero Pascoli e del suo uccisore. Libro composito, questo di Gianfranco Miro Gori, teso a segnare un prima e un dopo: non recrimina, non interviene soggettivamente, non sentenzia. Ci consegna una (e ad una) ineluttabilità: ad un certo punto della vita, inaspettato, un “colpo”, non cercato, non voluto, non preconizzato e nemmeno supposto, spezza l’incanto di una vaga serenità, di una dimensione vitale, un suo scorrere naturaliter come grande fiume dalla sorgente alla foce. È il “colpo di fucile” montaliano. È l’aprirsi della coscienza. È la scienza che “sgancia” nella tecnologia la netta divaricazione, inarrestabile, nei nostri giorni. È un “fare giustizia” fuori dalla giustizia. E noi, nel mezzo, insieme agli altri  in tali avvenimenti, od evenienze, tra scetticismo e constatazione, tra presa d’atto e la sensazione di essere privati di parte della vitalità.

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