lunedì 2 febbraio 2015
Su Il centro del mondo di Domenico Cipriano
Transeuropa, 2014
postfazione di Maurizio Cucchi
recensione di A. Ramberti
Mi ha molto colpito, di questa nuova raccolta, la capacità di trasmettere in maniera sobria ma con movimenti tellurici profondi al punto da far tremare il cielo (naturale e metafisico), da avvicinarcelo direi cristianamente; la capacità, dicevo, di plasmare una lingua poetica riconoscibile con immagini che paiono congiungere razionalità e affetti, pietas e tragicità (non a caso l'esergo de “Le stanze nascoste”, la prima sezione del libro, è una citazione di Cesare Pavese), pathos e bellezza, armonia (ogni sezione si apre con un suggerimento musicale) e “sospensione” religioso-filosofica: «Nemmeno i corpi uniti nell'amore / e racchiusi in un respiro solo sanno dire / dell'immenso in cui mi perdo ora / per questo tramonto vulnerabile / nel bagliore di una luce sterminata / tra le voci intrecciate in lontananza. / (…) / È quel bagliore, che si insinua vorticoso / oltre la forza decisa delle ossa, / ad aprire un nuovo varco sotto pelle, / a rinominare infinito il suono delle cose, / di quell'oceano che si nasconde eternamente / dentro al volto immobile dei monti» (p. 13).
Una splendida dichiarazione di poetica nella poesia iniziale: una ouverture ricca di echi, suggestioni, messaggi… l'autore, nella poesia successiva, ci dice che la nascita è una ferita ma anche «… la felicità di essere al centro / del mondo ancora sconosciuto» (p. 14). La dimensione della ricerca, del recupero delle proprie radici famigliari e “territoriali”, del senso da dare al proprio cammino con i suoi errori e le sue gioie, con il suo nucleo di sfida e mistero, è presente in maniera costante: «C'è più sacralità in questa casa / che nella chiesa del paese» (p. 18); «… nemmeno quello spigolo d'universo / ci appartiene. Cambiano con te / le cose abbandonate» (p. 24); «Ma io ricordo che i lampioni / erano accesi sopra il paese / e respirando nel freddo riuscivo / a dare vista alla mia voce» (p. 32); «… Siamo null'altro che un viso / che multiforme deposita il suo sguardo / sulle cose a cui apparteniamo…» (a Luigi, mio fratello, p. 37); «Chiedo alle immagini un'affezione / documentata, il risvolto / del luogo in cui sono nato» (p. 48). Le ultime tre citazioni sono tratte dalla seconda sezione, “Irpinia mefatisica”, che si apre con queste parole di Tolstoj: Il tuo villaggio è il centro del mondo, racconta il tuo villaggio e racconterai il mondo.
La terza sezione si intitola “Città degli occhi” ed ha in esergo una citazione di Elio Pagliarani. Le cose sono qui particolarmente animate (più che un correlativo oggettivo le definirei proprio empatiche): «Sotto le crepe della porta si appoggia / solo l'ombra, le molecole cedute /dalla segatura creano passaggi nascosti / dove s'incuneano i pensieri. …» (p. 53); «Cedo il peso del corpo alla sedia / ogni mattina, ma il pensiero non cede / peso né osso spurio alla terra. …» (p. 54); «e fuori dal crudo osso dei denti, / sui muscoli indolenti, si appoggia la città» (p. 62); «e da lontano i lampioni sono stoppie / bruciate nel rancore della notte» (p. 67).
Segue la sezione “Intermezzo” introdotta da un esergo del grande poeta cinese Po Chü-i (Bai Juyi): Se il mondo transitorio non è che un lungo sognare / Non ha importanza alcuna essere giovani o vecchi.
Cipriano ci dice che «… La pelle è il nostro accesso al mondo» (p. 71), che «Nel volto degli oggetti / si riflette il mondo / la fede estrema del nostro / dargli contro, l'efficace /pungiglione della memoria / a cui ricorriamo per paura» (p. 72), che non ama «… i talismani / che immolano le cose con l'affetto» (p. 74), ribadendo una verità che non ha bisogno di orpelli: «Non dirò “ti voglio bene” a quelle persone / che lo aspettano e lo sanno. Non lo dirò / perché non so ripeterlo alla terra nera / che si affanna, al cielo che precipita / sopra le teste ferme. Non so dire “ti voglio bene” / a più della metà del mondo che lo merita» (p. 80).
Segue la sezione “Natura domestica” con esergo di Maurizio Cucchi. Qui, la poesia Giacca con foglie si conclude così: «nulla somiglia alle radici / solo le ossa fuoriuscite / dagli stivali ricordano / l'autunno inoltrato» (p. 92). Anche in queste pagine il processo di antropomorfizzazione dell'ambiente, degli elementi naturali, è sempre un accoglierlo nella nostra anima, piuttosto che un riplasmarlo a nostra misura.
La sezione “Lampioni” si apre con le parole di Bruce Chatwin: Le cose, riflettei, sono meno fragili delle persone. Le cose sono lo specchio immutabile in cui osserviamo la nostra disgregazione. (da Utz)
La prima poesia è come un occhio di bue che taglia il buio per dargli un senso: «Sono come tutto il mondo / un simbolo, un segno che gratifica / il pensiero, un caldo gemito / creato dal nero» (p. 97). Nel paesaggio: «Le linee nette delle tangenziali / accavallano le ore del mattino» (p. 110). Mentre i lampioni-persone affermano: «Siamo fatti di luce / anche se a volte non brilliamo / e nella penombra scrostiamo / la vita…» (p. 111).
L'ultima sezione (che sembra contenere riposte, per quanto aperte) si intitola “A margine. Tre movimenti per N.” ed ha un esergo tratto da Le città invisibili di Calvino. Ecco alcuni lacerti: «perché lo spazio non è solo quello intorno al corpo / e la mente ha bisogno di lime per fuggire» (p. 117); «perché ognuno è la prova della vita inimitabile, / ognuno rinnega il passato prima di colarci dentro» (p. 122); «c'è un profumo di uva e muschio / una finestra per il sole, senza un confine netto / tra vivere e sperare» (p. 123). Una raccolta davvero matura, come scrive nella perspicua Postfazione Maurizio Cucchi, per la sua pacatezza “increspata di inquietudine” (p. 125).
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento