martedì 13 gennaio 2015

Su Assolo per mia madre di Maria Pina Ciancio

Edizioni L’Arca Felice, 2014 


recensione di Vincenzo D'Alessio



Accarezzare le pagine dell’ultima raccolta di poesie Assolo per mia madre della poetessa lucana Maria Pina Ciancio mette il lettore in comunione con la sonorità della grafia impressa sulla copertina e sulla quarta di copertina del volume: la calligrafia è l’emersione del carattere, degli anni trascorsi, la bellezza e il dolore dell’anima che attinge nell’infanzia. Il mio il nostro è l’entrare con discrezione tra le pagine di un diario familiare, di un dialogo silenzioso tra donne, natura, paesaggi fisici e mentali con la poetica e l’ispirazione dell’Autrice.
Nei versi il fonema ricorrente è “silenzi/silenzio” proprio della comunione tra il pensare e la mano che esegue. Lo spazio energetico che collega l’esecuzione è fatto di silenzio. Soltanto dopo, la voce/le voci, riprendono quei segni di un alfabeto che formano le parole e le rendono sonore.
L’alfabeto musicale si serve delle figure scritte sul pentagramma che misurano la quantità e la qualità del tempo della composizione che gli strumenti, per prima la voce umana, trasformano in suoni.
Maria Pina Ciancio ha generato in questa raccolta un alfabeto nuovo e antico al tempo stesso per trasformarlo nell’assolo poetico tra l’umanità e la morte, la madre e la Terra, chi scompare per sempre dalla vita e chi resta attraversando “percorsi brevi” (pag. 9). L’eterna mutazione tra bozzolo e farfalla, la “larva argentea” rappresentata nel Satyricon di Petronio, la fatica dell’uscire dall’esistenza che segna ognuno di noi riflessa nelle persone più amate: “Ritornare qui per te / ed essere te / (così mi pare a volte)” (pag. 42).
Il racconto in versi che compone questa raccolta intima, dialogante, sconfinata, ha l’inizio e la sua permanente conclusione nel cuore di una madre, nel calore di una stanza, nel grembo ancestrale di: “È rimasto un paese senza cuore il nostro / dove tutto e niente mi appartiene / dove tutto dura il sorriso del sole prima dell’inverno” (pag. 38). Inverosimile realtà e sconsiderato bisogno di sogni: “(…) In questa terra di silenzi / millenari / la nostra casa era ventre e culla / rituali e gesti antichi da lodare / a priori / gerani sempre in fiore / alla finestra” (pag. 42). I viaggi da una civiltà ad un’altra è la sorte dell’emigrato, di chi: “come Nannino che invece scappa, ha la valigia troppo piena e nello sguardo fughe notturne che guardano lontano” (pag. 10).
Chi torna per restare scopre il dolore della propria diversità. Le sette streghe di Rocco Scotellaro compaiono a rinnovare l’incertezza della scelta: “Ho un dolore che smuove radici / e bellezza e richiude lo sguardo negli occhi (…) Ti prego, madre, di queste incertezze / (ingabbiate tra offese e paure) / allontanami adesso dal petto le streghe e i confini / le voci accalcate alla testa / avvicina una mano e lo sguardo e cercami ancora bambina / solo un istante solo una volta / per l’ultima volta” (pag. 36). L’intera raccolta è pregna di invocazione alla madre, alla mamma, alla Terra.
La farfalla lascia il bozzolo sicuro che l’ha protetta. Vivrà una giornata intensa di voli/viaggi che romperanno il silenzio nella quale era protetta. Ogni minimo rumore la spaventerà, la renderà incerta, avrà voglia di tornare dove era nata. La grande Madre la chiama a compiere i viaggi perché breve è il soffio d’energia che in lei si rivela. L’unica salvezza resta, dalla sofferenza della prima apertura alare, il dispiegare le colorate ali ai battiti del vento, nel dorato profumo del grano, sul ciglio della strada, sui miasmi del fango e dell’asfalto. Tutto ha un senso prima che il bianco di una stanza spenga per sempre il volo.
La poetessa ha superato se stessa con questa raccolta donando al lettore la certezza che il silenzio, anche quello eterno, ha doni per l’Umanità: “C’è dentro queste stanze vuote / tutta la pietà del mondo e di me stessa / il tempo che si spande a dismisura” (pag. 37). Non si conclude l’empatia per la materia che ha animato questo assolo. Potrei richiamare i versi del grande poeta Giuseppe UNGARETTI ispirati dalla morte della madre e al muro richiamato dalla nostra poetessa. Preferisco avvicinare i versi della Nostra a quelli della poetessa americana Edna St. Vincent Millay: “(…) L’infanzia è il regno in cui nessuno d’importante muore – / madri e padri non muoiono. / E se tu hai detto: «Per l’amor del cielo, / devi proprio baciarmi di continuo?» (…) domani, o il giorno dopo, in pieno gioco, / avrai il tempo per dire «Scusa, mamma».” (L’infanzia è il regno in cui nessuno muore).

Nessun commento: