giovedì 2 ottobre 2014

Su Margaritae Animae Ascensio di Rosa Elisa Giangoia

(L'ascensione dell'anima di Magherita)

Edizioni Nemapress 2014

nota di lettura di AR


 
Ho trovato commovente, arguto e suggestivo il testo teatrale di Rosa Elisa Giangoia dedicato a Margherita di Brabante, moglie dell'imperatore Enrico VIII in cui tante speranze aveva (inutilmente) posto il Fiorentino esiliato. Margherita accompagnò il marito nella sua infausta campagna d'Italia e morì di peste a Genova nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1311, pianta da tutta la città per la sua attenzione ai poveri e per aver ottenuto la grazia in favore di alcuni condannati a morte. 
L'anno successivo il grande Giovanni Pisano realizza un gruppo marmoreo di notevole bellezza, purtroppo parzialmente distrutto durante la rivoluzione napoleonica. Ne restano fortunamente frammenti significativi: Margherita viene “sollevata per le braccia da due angeli-diaconi, che l'aiutano nella sua ascensione in Paradiso, il giorno del risveglio dei morti alla fine dei tempi” (Introduzione, p. 13).
L'azione drammatica si svolge nella chiesa genovese di San Francesco in Castelletto davanti alla tomba. I personaggi sono un gruppo di fedeli, Margherita, i due angeli, Tebaldo Brusati (ucciso dai Guelfi bresciani), le virtù cardinali (Fortezza, Giustizia, Prudenza e Temperenza), un diavoletto. 
Una luce intensa interrompe i ricordi di fedeli: giungono i due angeli ai lati della tomba e le virtù ai quattro angoli, queste ultime a un certo punto recitano in coro: «… la vita non è / come se non fosse mai stata, / sròtola, Margherita, i tuoi giorni / perché noi possiamo in te compiacerci. / Non per tuo vanto, scrolla la cenere delle memoria, / ma per la nostra gloria nella storia degli uomini» (p. 20).
E poco più avanti i due angeli affermano: «… solo il tempo ricordato diventa eternità…» (p. 21). Fra le parole di Margherita citiamo le seguenti: «E al mattino con mano ansiosa / allontanavo dagli occhi i sogni della notte, / mentre il vento si portava via i miei segreti / ed io regalavo i miei desideri al nuovo giorno» (p. 23); «Non mi pesavano le veglie, / anzi mi confortavano il cuore. / Ma per me vera rivelazione fu vedere / l'Evangelario che il monaco Liuthar / aveva realizzato per Ottone III / (…) / Lo sfogliai, osservai le miniature, lessi i testi / e capii… capii che il Vangelo doveva essere / la guida per l'imperatore, ma anche per me, / per saper stare al suo fianco / e aiutarlo ad individuare / la traccia di Dio nella storia» (p. 30); «Ero come in sogno, ben sapendo / che mai avrei potuto raggiungere quelle lontane cime misteriose / dove il silenzio lottava con il vento» (p. 35). 
Come emerge da questi brevi passaggi, Giangoia conosce a fondo la temperie storico–culturale del periodo in cui è vissuta l'Imperatrice, e la sa trasmettere a noi con leggerezza ammaliante, attirandoci in una atmosfera medioevale fatta di certezze, di ruoli e funzioni che non dovevano tanto ricercare il consenso (come nella fluida società globalizzata di questo inizio millennio), quanto rendere conto a Dio. 
Lasciando ai lettori il piacere di immergersi in questo racconto scenico, ci piace riportarne la vibrante chiusa apocalittica (recitata dal Secondo angelo): «Ad ogni verità sarà tolto il sigillo / e sarai per sempre segnata dal cielo. / Avrai la certezza della luce / che apre l'universo» (p. 61).

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