domenica 7 settembre 2014

Ricordando Antonio D'Alessio nel sesto anniversario

di Narda Fattori

Caro D’Alessio, cara Raffaela,


 
cari amici che siete lì accorsi per onorare Antonio, la mia intrusione fra di voi è solo di testimonianza; il mio intento è di esservi vicina in questa ricorrenza per ricordare un poeta prematuramente scomparso. Già un poeta.
Non vi sembri eccessiva questa mia affermazione: ho letto con attenzione le poesie ritrovate che Vincenzo mi ha fatto pervenire; esse non tradiscono l'ispirazione di fondo di Antonio, già rilevabile dal primo libretto pubblicato postumo, anzi ripropongono con una maggiore consapevolezza sia tematica che stilistica, la problematicità dell'essere e dell'esistere, in continua tensione fra il desiderio di fuga e la tentazione della quiete esteriore e interiore che poteva trovarsi solo nella sua terra, nella sua casa, fra le persone amate.
Mi si dice che la stesura delle poesie è frammentaria nel tempo, ma penso che la casualità creativa temporale, ha permesso di conservare la freschezza dell'ispirazione e la costanza delle problematiche affrontate.
L'inquietudine del giovane poeta si piega in queste poesie ad un dettato conquistato che, pur nelle sue sfaccettature denotano una frequentazione frequente dei multiformi aspetti della poesia.
Chissà se, musicista, avrebbe voluto essere faber come De Andrè. Fabbro di vita, fabbro delle parole; infatti esse non sono solo scaturigini emozionali ma tensione, ricerca. Tensione e ricerca che gli riconosco.
All’interno di questa raccolta scopriamo termini che si ripropongono con frequenza pur all'interno di stati d'animo e di emozioni diverse; una di questi è la parola “tramonto”, parola già polisemica di per sé (la terra occidentale, la civiltà occidentale, la posizione della scomparsa della luce solare, l'estenuazione della vita…) che troviamo declinata con maestria: “…

 / un desiderio si intreccia… / e poi muore / ai sinceri versi del tramonto”; qui forse alla natura fragile e corrosa dal desiderio viene contrapposta l'autenticità di una natura che è nel creato e nel tramonto quando, come in un ossimoro, allo scomparire della luce appare una maggiore chiarezza; e ancora: “Nelle sere posa un argento / e arieggiano cornici e colori / …” ( immagine quasi pittorica) e poi “L'ultimo tramonto / mi sveltisco nei movimenti / …” dove alla caducità della luce viene contrapposta una vitalità che dalla scrittura tracima nella vita e si allunga nel percorso.
Ma leggiamo anche versi che sono folgoranti per potenza immaginifica e riflessiva, che sommuovono l'animo del lettore e lo spingono ad interrogarsi e a cercare risposte, come ha fatto Antonio.
L'apertura stessa di questa raccolta è una folgorazione metaforica e filosofica (o una premonizione?): “Non aspetto altro che di svestirmi”; ci si chiede: allora è così che andiamo, appesantiti da fardelli che coartano la nostra leggerezza e la verità? Solo nudi si giunge ad una meta. È una nudità metaforica, una ritrovata innocenza, uno stato primigenio.
Ma ancora: “Scrivo per capirmi”, “La speranza di continuità è un pasto quotidiano”; incontriamo amarezza, desiderio di un oltre, di un altrove, di uno stato d’animo inquieto che non riposa e non accetta di essere pecora nel gregge, falsa identità imposta dalle mode del tempo.
Antonio vuole costruire un puzzle tutto suo e fatica perché le tessere spesso non combaciano, come succede a chi si impone la stessa fatica; perché “le decisioni comode arrivano in un attimo. / Le indecisioni, la fermezza / non hanno sedi distaccate / ma non vivono / nelle nostre convinzioni.”
Dunque Antonio era consapevole che la via dell'autenticità è stretta e perigliosa, che l'uomo è fragile, che non sempre si riesce a cogliere la via diritta e le esperienze scorrono incidendo la mente ma anche spartendo certezze e “la profondità” fugge e impone una continua fatica alla sua ricerca.
Ma da solo cerca di rincuorarsi “trattieni il fiato e attraversa”; atto eroico e consapevole, consapevole anche che le sofferenze del cuore non producono nuove verità, la dovuta sazietà contro la fame che reca la solitudine.
Credo che si potrebbe analizzare ogni verso, ogni parola scritta da Antonio scoprendone sempre una visione che diverge ogni volta ma che ogni volta rivela la stessa inquietudine.
Dunque è una poesia che trae in sé stessa la sua giustificazione; si porge alla mente e alla mano di Antonio come l'immensità che cerca di sfogliare; c'è in queste poesie una necessità drammatica che sorge proprio dal disincanto e dal dolore, che giustifica anche la sua incompiutezza (forse che l'uomo è compiuto?); eppure quanti tentativi di ricerca di compiutezza…
Questa poesia è modernissima e va oltre la condizione generazionale, è lirica e risoluta, scevra di quello slancio vocale di autoreferenzialità di cui tanta poesia pecca.
Caro Antonio, mio amico non più sconosciuto, queste poesie estemporanee denunciano una vocazione assidua alla scrittura e sono pregevoli per l'autenticità e le tematiche affrontate. Per il dettato armonico, che fedele alla tensione dei contenuti a volte stride come stride l’anima ai dolori che la vita non risparmia.
Ciao, Antonio; guardaci con benevolenza.
Narda Fattori
Gatteo (FC), 27 gennaio 2011

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