Alberto Mori,
Esecuzioni, Fara Editore, 2013
Prefazione di Franco Gallo
recensione di Meeten Nasr
È un fatto che da almeno
vent’anni il poeta Alberto Mori ha pubblicato quasi ogni anno una sua raccolta
di versi. Ciò non ha però ancora indotto quelli che si occupano della sua attività
a chiamarlo “poeta” e basta. Anzi sta dilagando l’uso di definirlo “poeta e
performer” per sottolineare un altro fatto, e cioè che soltanto la sua personale e provata capacità di recitare ad alta
voce e di “agire” col proprio corpo queste sue composizioni rende “poetiche” – nel
senso più comune – queste inusitate costruzioni linguistiche non esenti di autoironia.
Ad agitare un po’ le acque ecco ora arrivare, col ritardo di un anno, questo
libretto dal titolo un po’ ambiguo (a metà fra la musica e la giustizia
sommaria) dalla cui prefazione, dovuta alla penna del filosofo e saggista
Franco Gallo, ricaviamo questa fatale asserzione: “L’esecuzione capitale della
poesia, la sua lettura ad alta voce come fatto sociale, diventa… cancellazione
intenzionale dell’autosufficienza del testo poetico, la sua reinvenzione come
spartito e suo affidamento allo strumento profondamente onirico del corpo” (p.
10). Siamo dunque arrivati, distanziando la poesia, a un passo più in là da
quella morte di Dio annunciata un secolo fa dal filosofo Nietzsche, anche se
poi, come esergo a questa raccolta (p. 12) Mori ha inserito una frase
colloquiale del noto musicista John Cage che ci dà un avvertimento:
“probabilmente ci sarà un po’ di musica”, come dire “se non poesia, almeno musica”.
Infatti un’altra sorpresa ci attende. Ognuna delle 40 composizioni di questo
libretto reca in calce un simbolo numerico – per esempio (3:46) o (4:23) o
(oo:45) – che suggerisce, a detta dell’autore stesso, la durata ottimale delle
loro letture. Si tratterebbe qui dell’applicazione alla poesia del metodo dello
stesso Cage che componeva le sue musiche ricorrendo alle combinazioni casuali
del Tao Te Ching e che poi
lasciava agli esecutori la determinazione della durata delle note. Come non
pensare all’intervento delle Muse Inquietanti di Salvador Dalì?
Affrontando ora la lettura di
questi 40 brevi e perentori epigrammi, possiamo ben presto constatare che non vi
sono esitazioni o rinvii dal rigido programma qui annunciato. Il musicale, il
visivo, l’elettronico, spesso il nonsense
dominano largamente sul letterario, mentre i significanti di buona memoria
eludono spesso i suggerimenti dei significati. Qui i neologismi trionfano: “Il
tinnito vuoto esce sintetizzato / Riaccende in Remix / il madrigale vespertino
del Collettivo Sublime / al
vernissage per New Swarovsky Shop” (p. 20). Ogni evento sonoro-visuale viene individuato
nel suo svolgimento nel tempo e offerto in consumo al lettore attraverso la
vista o l’udito o altri linguaggi. Tutto protende all’invenzione. Esemplare può
essere considerato l’ascolto di un brano di musica di Piazzolla: “Al
protendersi postprandiale del deambulo / Nei passi fisarmonici in relax / La
sosta nella Piazzolla intanga tempo” (p. 24). E questo contrapposto e forse
anche scherzoso linguaggio adottato/inventato/concesso da Mori ci aggiorna sul
livello di rumori e invenzioni resi agibili oggi dalle tecnologie delle
comunicazioni. Ma si leggano ancora questi quattro versi (p. 48): “Battito
oscuro / Atemporale dalla lontananza / Timpani taciuti simultanei / La luce
scivola invisibile sulla musica delle sfere” dove la forza poetica, nel senso
tradizionale, è pure presente perché i suoni e le parole del testo hanno la
forza di ricostruire, di fronte all’insieme degli organi percettivi dei
lettori, quel suono-visione-evento fortemente condensato di cui è d’obbligo
prendere atto.
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