Giacomo Cerrai e il suo silenzio nudo
di Mario Fresa
Nel torcere,
e poi nel divelgere, in modo radicale, la centralità del soggetto all’interno
del discorso poetico, la scrittura di Giacomo Cerrai tende alla costruzione di
una lingua assoluta, quasi automatica e irriflessa, che appare sempre animata
da necessità testimoniali disperatamente oggettive.
Nella più
recente raccolta di Cerrai, Diario estivo
e altre sequenze (L’arcolaio, 2012), la presenza dell’io, intesa come
fulcro germinante del pensiero e dell’azione, non fa che sottrarsi e
disperdersi, giungendo infine ad azzerarsi e a calarsi per intero nell’incredula
contemplazione di un’esistenza caotica e pulviscolare, attraversata di continuo
da una inquietudine spasmodica e straniante.
Il diluirsi e il decomporsi del
soggetto conducono, allora, alla codificazione di un dire esterrefatto e
perplesso, capace solo di mostrare le forme misteriose di una realtà che si
profila oscura e disarticolata, instabile e angosciosa. La lingua di Cerrai è
cauta ed elusiva: il suo andamento sfuggente, quasi sempre accompagnato da un’interdetta
ed emblematica stupefazione, sembra registrare –in maniera neutra e in senso
puramente denotativo – l’emergere nudo, assoluto dei fatti; ma sono proprio l’ambigua
reticenza dell’io, il suo ombroso mimetismo, la sua esorcistica posizione di
distanziamento a configurare, se non addirittura a potenziare, la tragica
esposizione di un vuoto dissipante, e la cupa ostensione di un’opacità
sprofondante che percorre, e opprime, l’intera scena del mondo.
Con il suo
sguardo accorto, muto, silenzioso, ma sempre vigile e terribile, e con la sua
attenzione dura e lancinante, questa poesia vuole leggere e trascrivere il fluire
degli eventi riconducendo il loro
significato ultimo all’epifania di un destino inospitale e ostile, promuovendo
l’aprirsi di lacerazioni impietose e permettendo l’emersione di smarriti
frustoli di senso che inchiodano l’agire alla minacciosa dimensione di un tempo crudelmente
sospeso e interlocutorio, denso di larve e di segnali indecifrabili.
Il titolo
del libro – Diario estivo – appare morbido,
quotidiano, feriale: ma è usato, si capisce, con una certa malinconiosa sprezzatura
e, dunque, in senso ironicamente antifrastico; perché la poesia di Cerrai –
tutt’altro che “quotidiana” o rassicurante – procede nel segno di una tensione
che rifugge sia dalle pastoie del facile lirismo, sia dalle trappole dell’esornazione
estetizzante, scegliendo, invece, una formula espositiva rigorosa e stringente
che bandisce tutti i vezzi e gli ammiccamenti della scrittura poetica “di
mestiere”.
L’affilata
dedizione alla necessità di un obliquo nascondimento dell’io – avvertito come
una specie di alterità dissidente –
mostra, così, il soggetto come se fosse imprigionato in un’apparente inermità
che lo spinge a praticare una forma di rilevazione cruda e oggettiva delle
cose, per il tramite di una disarmata e drammatica inertizzazione della
volontà.
L’immersione
– anzi, l’inabissamento – nella lucida disperazione di questo sguardo “puro”
congiura a sostenere l’ipotesi di una finale inconoscibilità del reale, e dell’impossibilità
di una definitiva resa dei conti che possa rivelarsi finalmente risolutiva e
chiarificatrice; chi legge, dunque, si ritrova precipitato in una sorta di
vortice ossessivo e perpetuo, che lo risucchia nella spirale interminabile di
un’«illusoria prospettiva», o nello scomporsi atroce, «non reversibile», di
paesaggi e «di persone e pietre/poi dispersi».
«e delle infinite vicende e
calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo,
e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano
mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato
né inteso, si dileguerà e perderassi.»
Giacomo Leopardi, Cantico del gallo silvestre