mercoledì 11 settembre 2013

Mario Fresa. Ex Libris / 1




 
Giacomo Cerrai e il suo silenzio nudo

di Mario Fresa





Nel torcere, e poi nel divelgere, in modo radicale, la centralità del soggetto all’interno del discorso poetico, la scrittura di Giacomo Cerrai tende alla costruzione di una lingua assoluta, quasi automatica e irriflessa, che appare sempre animata da necessità testimoniali disperatamente oggettive.
Nella più recente raccolta di Cerrai, Diario estivo e altre sequenze (L’arcolaio, 2012), la presenza dell’io, intesa come fulcro germinante del pensiero e dell’azione, non fa che sottrarsi e disperdersi, giungendo infine ad azzerarsi e a calarsi per intero nell’incredula contemplazione di un’esistenza caotica e pulviscolare, attraversata di continuo da una inquietudine spasmodica e straniante. 
Il diluirsi e il decomporsi del soggetto conducono, allora, alla codificazione di un dire esterrefatto e perplesso, capace solo di mostrare le forme misteriose di una realtà che si profila oscura e disarticolata, instabile e angosciosa. La lingua di Cerrai è cauta ed elusiva: il suo andamento sfuggente, quasi sempre accompagnato da un’interdetta ed emblematica stupefazione, sembra registrare –in maniera neutra e in senso puramente denotativo – l’emergere nudo, assoluto dei fatti; ma sono proprio l’ambigua reticenza dell’io, il suo ombroso mimetismo, la sua esorcistica posizione di distanziamento a configurare, se non addirittura a potenziare, la tragica esposizione di un vuoto dissipante, e la cupa ostensione di un’opacità sprofondante che percorre, e opprime, l’intera scena del mondo.
Con il suo sguardo accorto, muto, silenzioso, ma sempre vigile e terribile, e con la sua attenzione dura e lancinante, questa poesia vuole leggere e trascrivere il fluire degli eventi riconducendo il loro significato ultimo all’epifania di un destino inospitale e ostile, promuovendo l’aprirsi di lacerazioni impietose e permettendo l’emersione di smarriti frustoli di senso che inchiodano l’agire alla minacciosa dimensione di un tempo crudelmente sospeso e interlocutorio, denso di larve e di segnali indecifrabili.
Il titolo del libro – Diario estivo – appare morbido, quotidiano, feriale: ma è usato, si capisce, con una certa malinconiosa sprezzatura e, dunque, in senso ironicamente antifrastico; perché la poesia di Cerrai – tutt’altro che “quotidiana” o rassicurante – procede nel segno di una tensione che rifugge sia dalle pastoie del facile lirismo, sia dalle trappole dell’esornazione estetizzante, scegliendo, invece, una formula espositiva rigorosa e stringente che bandisce tutti i vezzi e gli ammiccamenti della scrittura poetica “di mestiere”.
L’affilata dedizione alla necessità di un obliquo nascondimento dell’io – avvertito come una specie di alterità dissidente – mostra, così, il soggetto come se fosse imprigionato in un’apparente inermità che lo spinge a praticare una forma di rilevazione cruda e oggettiva delle cose, per il tramite di una disarmata e drammatica inertizzazione della volontà.
L’immersione – anzi, l’inabissamento – nella lucida disperazione di questo sguardo “puro” congiura a sostenere l’ipotesi di una finale inconoscibilità del reale, e dell’impossibilità di una definitiva resa dei conti che possa rivelarsi finalmente risolutiva e chiarificatrice; chi legge, dunque, si ritrova precipitato in una sorta di vortice ossessivo e perpetuo, che lo risucchia nella spirale interminabile di un’«illusoria prospettiva», o nello scomporsi atroce, «non reversibile», di paesaggi e «di persone e pietre/poi dispersi».












«e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.»
                                                                    
                                                                                                    Giacomo Leopardi, Cantico del gallo silvestre