mercoledì 12 giugno 2013









Sulla poesia di Mario Fresa





Mario Fresa (1973)



Sostiene Alfonso Berardinelli che “nei poeti quello che m’interessa di più non sono i loro versi, ma la loro prosa, o quelle opere poetiche che sono più vicine alla prosa, e che potrebbero essere riscritte, oggi, in prosa”. Per capire meglio tale assunto, va ricordato che Berardinelli ha avuto il proprio padre tutelare in Giacomo Debenedetti, nel quale “la diffidenza nei confronti del lirismo puro e dell’oscurità ermetica è stata precoce (il suo primo saggio su Saba risale all’inizio degli anni venti)”. Si chiede perciò Berardinelli “che cosa ne sarà di quella poesia che vuole essere puramente lirica senza essere affatto epica, e che anzi separa nettamente i fenomeni dell’interiorità dalle circo-stanze esterne della vita?”. Dopo la lezione debenedettiana, infatti, i linguaggi non possono che es-sere “per così dire, a funzionamento ermetico (Montale, Ungaretti, Luzi) o a funzionamento relazionale (Saba, Penna, Noventa, Sereni)” (per tutte le citazioni: A. Berardinelli, La poesia verso la prosa, Bollati Boringhieri, TO, 1994, pp. 214-19).
In questo filone “relazionale” si inserisce il libro poetico di Mario Fresa intitolato Uno stupore quieto (Ed. Stampa 2009, Azzate [VA], 2012), autore che Maurizio Cucchi aveva incluso nell’antologia Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) e di cui ora, in una puntuale prefazione, afferma che “si muove su territori orizzontali, in cui i microeventi o i brandelli della quotidianità, non meno, peraltro, dei segnali di una riflessione attenta sulla perdita di senso del reale, vengono a mescolarsi […] nell’insieme di un tessuto prosastico molto variegato e carico di presenze”. Un po’ più genericamente Cucchi fa risalire il verso lungo di Fresa (ma non la sua prosa poetica) agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, mentre per noi i frammenti del quotidiano e i brani di parlato che e-trano nel costrutto di Fresa hanno un’origine precisa, come forse è spia il “Carla” che appare a p. 23: vale a dire La ragazza Carla di Elio Pagliarani, del 1960.
Va però precisato subito che la relazionalità, in Fresa, è giostrata in modo da evitare ogni pulsione epica e ogni referenza a un reale dotato di senso forte: i suoi frammenti “esterni” sono molto più dequalificati e triti, appartenendo a una datità sociale che – come si dice oggi – è “massificata” e musilianamente “senza qualità” (a p. 65 è inserito persino un oroscopo). Anche se, in qualche composizione, sembra a volte che appaia un “personaggio” (debenedettianamente) più costruito, come avviene nel testo intitolato Metamorfosi (poemetto in cinque lasse), che insieme col successivo Largo pomeridiano (quattro lasse), dovrebbe ricostruire la Storia di G. che dà il titolo alla sezione: G. è infatti “quello che apre, ogni mattina, […] il negozio di occhiali di finto lusso, poco faticosamente ereditato da suo padre; […] E’ vero che G., l’ottico moscio, ha ucciso sua sorella per-ché si è rifiutata di pagare la metà di non so cosa? Ma no, che non è vero. Cioè nessuno è mai riuscito a provarlo”(pp. 16/21). Nella sezione Titania (quindici composizioni brevi senza titolo) c’è comunque un testo che può essere preso a paradigma della “visione” del reale privo di consistenza quale appare a Fresa: “Questo corpo disossato […] adesso divenuto / come un osceno guscio / abbandonato, in un istante, con una fredda / crudeltà, con uno strano / stupore quieto” (p. 31). Gli ossi di seppia di Montale richiamavano almeno la polpa biologica dell’animale che li aveva costruiti, mentre qui è la scheletricità in sé a prevalere, e forse per questo stupisce l’autore. E il nome della sezione è forse spiegato da un testo successivo, che recita: “Nell’angolo accecante di questa dura luce di titanio, / perfino i nostri nomi sono finiti, adesso, nella rete / di un biancume formicolante, nel fragile / attrito di un ricordo”(p. 42). Se la realtà si riduce a “ricordo” si versa nella nota “crisi della presenza” (E. De Martino), e per tale via si può persino richiamare la morte della farfalla montaliana (in Vecchi versi) e la parallela “riduzione husserliana” del mondo fenomenico.
In Fresa sembra che la “presenza” non possa consistere nemmeno in effigie. Come avviene ne I sicari (tre lasse contrassegnate da asterischi): “Riconoscere il nome / dei vecchi inquilini a partire dalle foto […]. Nemmeno questo fu possibile: ritrovammo le teste selvaggiamente ritagliate da tutte le foto, così, per scempio” (pp. 55/56). D’altra parte, anche quando la referenza ha un bersaglio più puntuale, ricorre un lessico che di per sé dequalifica il reale: osceno, viscido, untuoso. E forse si deve intendere – sul piano espressivo – anche l’ellissi del verbo nella frase (o del complemento) come evento che denuncia questa perdita della presenza? Si considerino questi esempi: “Eppure non si è malati ma” (p. 32), “accusa lui, ‘sto porco, di” (p. 59), “soprattutto quello stronzo di Giangarlo ora me la” (p. 61), “guarda la strada come l’hanno” (p. 63), “Lei mi ha detto, d’accordo, di” (p. 68).
Il prefatore rilevava in Fresa anche un “tratto forte” dell’ironia, per la quale però a nostro parere, conformemente all’ambiguità di questo tropo, non sempre l’autore indica a sufficienza gli “indici di decodificazione” (cfr. M. Mizzau, L’ironia, Feltrinelli, MI, 1989, pp. 21/23). 

                                                                                                                                    Sergio Spadaro






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