Il talento della malattia di Alessandro Moscè (Avagliano 2012)
Intervista all'autore a cura di Cinzia Demi
"Quando uno scrittore può dire di essere stato uno dei
pochi guariti da un male crudele e raro, allora non può esimersi dal
raccontarsi. Alessandro Moscè lo fa a distanza di trent'anni ambientando e
riconoscendo gli archetipi dell'esistenza umana che in questo romanzo ci sono
tutti: la nascita, la morte, il senso di finitudine, la perdita, il mito, la
fede. Un famoso calciatore diventa il viatico per far fronte ai luoghi di
separatezza dalla vita, gli ospedali. Giorgio Chinaglia, mito della Lazio degli
anni '70, era già un "compagno insostituibile" di giochi nell'infanzia,
incarnato fantasiosamente come soggetto di fedeltà al quale appellarsi nella
solitudine. Nel romanzo figura una marcata caratterizzazione dei personaggi
della quotidianità: i nonni, il padre, la madre, la suora delle elementari,
l'anziana signora dei vicoli, l'omino della casa di riposo, il luminare della
medicina. Si apre uno spaccato sulla provincia italiana che confluisce in una
dimensione-altra con la comparsa della malattia, a soli tredici anni. Ma si
avverte, in fondo, che il dolore è stato anche un'occasione per riaffermare la
vita. "
Il
cammino doloroso di un bambino attraverso la speranza di una guarigione
ritenuta impossibile che diventa una sorta di percorso iniziatico verso la
crescita interiore, e un amico immaginario che si fa reale, un aiutante magico
a cui affidarsi per superare la prova, per vincere la malattia e la vita
stessa. Questi gli elementi che pescano dal fiabesco nel libro, diventato ormai
uno dei simboli letterari della Lazio di Giorgio Chinaglia, scritto da
Alessandro Moscè, autore affermato nel panorama letterario italiano. Alessandro
ha gentilmente accettato di rilasciare una nuova intervista che parli del suo
lavoro.
(D)Il
romanzo è una sorta di percorso iniziatico verso la vita, una risposta
incredibilmente positiva a chi si aspettava, data la terribile malattia che
colpisce il giovane protagonista, il sarcoma di Ewing, una fine tragica. E’
un’inspiegabile vittoria di un piccolo eroe che si è affidato al suo coraggio e
ad un aiutante magico che lo potesse sostenere. Viene in mente “La bambina che
amava Tom Gordon” di quel grande narratore moderno, per l’infanzia e non solo
che è Stephen King, racconto che pesca alla stessa maniera dal genere fiabesco,
descrivendo la vicenda di una bambina che, una volta dispersa nella foresta, si
affida al suo idolo sportivo, appunto Tom Gordon, attraverso l’ascolto delle
partite da una radiolina, per riuscire a sopravvivere e a salvarsi, affrontando
terribili situazioni davvero al limite della sopportazione. Fondamentale si
rivelerà in questa vicenda, oltre alla determinazione della bambina, proprio la
sua fede nell’aiutante magico, nell’idolo prediletto. Quanto è stato magico,
allora, per te Alessandro, Giorgio Chinaglia? Quanto ha contribuito la speranza
di realizzare il sogno di incontrarlo a rafforzare lo spirito per vincere la
malattia?
(R)In
realtà Giorgio Chinaglia non rappresenta un personaggio magico, fiabesco. E’ il
più grande calciatore della storia della Lazio. Bizzarro, estroso,
indisciplinato. Semmai un eroe dell’infanzia morto il 1° aprile del 2012
(sembra quasi uno scherzo) e trasformato in mito secondo il principio moderno
del “basso epico” di Borges. Proprio perché un personaggio in carne ed ossa,
non poteva che essere l’attesa di incontrarlo l’antidoto alla sofferenza fisica
e psicologica. Di fronte alla debolezza che mi provocava la malattia, un
simbolo di forza fisica lo era anche di resistenza, tanto che avevo
introiettato lo slogan che gli urlavano i tifosi laziali della curva nord:
“Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. Vale a dire la mia reazione
aggressiva al sarcoma, ad un altro tipo di partita. Non so quanto ciò che la
psicologia moderna definisce la “motivazione antagonista” abbia influito nel
decorso della malattia e nella guarigione. Ma so che quando un bambino mette in
atto una sorta di esorcismo per sognare e sfuggire alla depressione, l’effetto
benefico corrisponde alla sublimazione della malattia, alla trasformazione del
dolore in effetto di gioia. Il bambino di allora aveva bisogno di un simbolo di
spavalderia, di sfrontatezza, dentro la camerata d’ospedale dove lottava tra la
vita e la morte. Giorgione voleva vedermi ultimamente, ma non poteva rientrare
in Italia perché sotto processo. L’ultima volta che l’ho sentito, anni fa, mi
ha confermato quello che disse una volta ad un grande giornale americano: “Non
sono io ad aver giocato con Pelè. E’ lui che ha giocato con me”. Ridemmo di
gusto.
(D)Parlare
della morte dopo averla sentita così vicina e in così giovane età, l’età
dell’adolescenza dove tutto è già altamente amplificato, vissuto al limite
spesso dell’eccesso per mettere alla prova le proprie forze, non deve essere
stato facile. E comunque lo hai fatto circa trenta anni dopo i momenti che
racconti. Intanto come sei riuscito ad acquisire anche il linguaggio
specialistico per parlare della malattia? E poi, quali sono i sentimenti che si provano a vedere certe cose a
distanza? Ovvero sembra di parlare dell’esperienza di qualcun altro? Si riesce
ad estraniarsi così tanto da diventare una voce narrante esterna o è più forte
la tensione interna che ricorda quegli anni davvero vissuti?
(R)Ho
acquisito un linguaggio medico dopo anni di studio sui sarcomi ossei. Oggi
guarisce il 25% dei malati, allora erano pochissime possibilità di scamparla.
Pubblicare il libro è stato invece molto difficile, perché gli editori non
credevano che fossi uno dei due unici guariti, negli anni Ottanta, dal sarcoma
di Ewing ischio-pubico, secondo la casistica personale del grande Mario
Campanacci, direttore dell’Istituto Rizzoli e luminare internazionale nel campo
dell’oncologia ortopedica. Uno dei maggiori editori italiani ha interpretato il
romanzo definendolo miracolistico. Per questo lo ha rifiutato. Franco Brevini
mi ha restituito l’onestà almeno dell’intenzione letteraria, dicendo di “una
grande storia di guarigione nel segno del calcio”. Le mie cartelle cliniche
dimostrano la verità dei fatti e ancora oggi rimango un caso clinico del tutto
singolare. Basterebbe rivolgersi a Rodolfo Capanna, l’allievo prediletto di
Campanacci, ortopedico che opera stabilmente al Carreggi di Firenze e spesso in
cliniche specializzate di tutto il mondo. In effetti sembra che abbia scritto
la storia di qualcun altro, perché per
pudore ho taciuto trent’anni e solo attraverso un meccanismo di catarsi in età
adulta sono riuscito a liberarmi di questa oppressione.
(D)Parliamo
anche del contesto esterno di ambientazione del libro. Esterno e familiare, che
propone immagini prese dal reale, suppongo. La famiglia, il paese di provincia,
il tuo paese, Fabriano, con i suoi personaggi caratteristici, alcuni dei quali
hanno fatto parte della tua storia. Quanto conta per uno scrittore il luogo
dove è nato per poterne, per volerne parlare nei propri scritti? E’ una
necessità o una comodità parlare dell’ambiente che conosciamo, in cui siamo
cresciuti? Ma soprattutto, quanto rende il parlarne in termine di riscontri di
critica o di semplici lettori?
(R)Sono
anche uno scrittore di luoghi, da sempre. Tolstoj diceva: “Se vuoi essere universale parla del tuo
villaggio”. Ma Fabriano, la mia città, non è un posto difensivo secondo la
dimensione localistica, bensì un’amplificazione attraverso la quale guardare
agli archetipi dell’esistenza, come la vita e la morte, la malattia, la
perdita, l’assenza. L’ambiente del quale si scrive è un qualunque posto del
mondo, alienato, anonimo. Sono i luoghi dell’anima, concreti, visibili, mai
fantastici e visionari a dare lo sprone alla scrittura. Si pensi ad Acitrezza e
a Verga, a Macondo e a Marquez. Non serve raccontare da un luogo principe e
noto, ma da una postazione dove siano avvertiti l’antropologia e l’escatologia
dell’esistenza, elementi che sono il sunto della mia scrittura.
(D)Il
titolo del libro, elemento sempre molto importante per l’apprezzamento di un
lavoro, è azzeccato, accattivante. Ho letto che ti è stato suggerito da
Emanuele Trevi. Vuoi spiegarci cosa significa e se, alla luce del tempo
trascorso dalla pubblicazione ad oggi, sei ancora convinto che sia stata una
scelta vincente? Ne avevi altri in mente?
(R)Non
ho pensato ad una scelta vincente. Non mi sono proprio posto l’interrogativo.
Una malattia non può essere talentuosa, ma se l’ammalato riesce ad esorcizzarla, come dicevo, ecco che può suscitare,
paradossalmente, anche una dote. Ciò che racconta Thomas Mann nel capolavoro La
montagna incantata. L’interesse per la malattia e la morte altro non è che
un interesse per la vita, del resto. Avevo in mente anche il titolo, forse
banale, La guarigione. Questo ossimoro, invece, mi pare la chiave per
entrare dentro il nucleo della storia. Il talento della malattia mi
restituisce in pieno l’impressione di Cioran: “La malattia, accesso
involontario a noi stessi, ci assoggetta alla profondità, ci condanna ad essa.
Il malato? Un metafisico suo malgrado”.
(D)Credo molto nella completezza di uno scrittore, anche se molte volte si
tende a etichettare l’uno o l’altro con l’appartenenza ad un genere di
scrittura. Tu sei critico letterario, poeta e adesso romanziere. Da cosa ti
senti principalmente attratto? Quale genere preferisci? Se ce ne è uno, qual è
che ti dà maggiori soddisfazioni come autore? La poesia, ad esempio, avrebbe
potuto raccontare questa tua storia con la stessa efficacia della prosa, o
magari avrebbe potuto risultare ancora più incisiva?
(R)No, la poesia non avrebbe potuto raccontare la mia
storia, perché si serve di un linguaggio primitivo, istintuale, mentre Il
talento della malattia, invece, poteva essere narrato come una pianificazione ideale, quindi con una vera e
propria narrazione. Aveva bisogno di una cronologica disposizione
di eventi, di una precisa connotazione dei personaggi. Credo comunque nella
coesistenza dei generi, il patchwork, dove possano confluire scrittura
narrativa, poetica e saggistica, cosa per lo più rifiutata dagli accademici.
Penso ad un grande libro, Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forest,
dove emerge una scrittura miscellanea. Forest racconta la vita e la morte della figlia
Pauline dal primo all’ultimo giorno. La intreccia e la fonde con la storia
della letteratura e lascia che venga “afferrata” dalla letteratura proprio
perché ha imparato che i corpi amati scompaiono, mentre le parole non
abbelliscono nulla. Le parole sono solo una testimonianza.
Bologna, aprile 2013.
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