sabato 6 aprile 2013

Il fruscio del verso: sulla nuova raccolta di Angela Caccia

recensione di Davide Zizza


«E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.» (Vangelo di Matteo 26, 30ss). Il passo citato precede il momento in cui Cristo predice non solo il rinnegamento pietrino, bensì la sua passione e resurrezione. L’inno cantato era il Salmo dell’Hallel. Il monte degli Ulivi guadagna il senso di luogo concreto e di luogo simbolico.
Avete mai sentito all’ombra di un albero di ulivo il mormorio del vento?
Il verso del poeta, di ogni poeta, ambisce al rumore secco e ventilato fra i rami degli alberi. È catturare la visione, quanto viene appena intravisto. Qui riscopriamo il suo ruolo, quello di restituire con trasparenza il senso sfuggente dietro le parole e dietro le immagini che le parole catturano. La poesia è il passaggio del vento, agisce come un tornio nella mente di chi l’ascolta. Questa immagine non può non rievocare L’agave sullo scoglio di Montale: «O rabido ventare di scirocco | che l’arsiccio terreno gialloverde | bruci […]»
Il soffio poetico è uno dei caratteri dominanti della raccolta di versi di Angela Caccia Nel fruscio feroce degli ulivi edito da Fara Editore. Il fruscio e gli ulivi sono un simbolo, non denotano solo un percorso, rappresentano la coscienza del sentire. Rappresentano una sorta di pegno dato al lettore, il quale riceve la cosa più autentica, la più profonda, la parola anticamente sepolta nel fondo di un ruah interiore. Ritornando alla domanda di cui sopra, aggiungo: non è mai capitato, nell’ascoltare, di tender meglio l’orecchio per percepire quanto non fosse evidente all’iniziale percezione? I versi della nostra autrice portano qualcosa con sé da lontano, non solo esperienze sfumature impressioni, ma persino silenzio e pensiero, un invito quindi a tendere l’ascolto. Non rappresenta un paradosso: il silenzio è uno dei momenti rivelatori della poesia, non presenta contraddizione alcuna se consideriamo il silenzio la condizione necessaria di una parola maturata, sentita, spogliata e rivestita di un nuovo abito significativo.
«Nel petto un silenzio di pietra» (Di noi si dirà), si diceva: è un silenzio prima che il pensiero salpi, anzi prima che le parole indichino la rotta del pensiero, è presentire qualcosa di umano e metafisico, «un respiro sospeso | come un’attesa antica» (Giardino), un’attesa per cui se da una parte «Nell’eco di questa musica lontana | il mio spartito è già sbozzato» (Malinconie) dall’altra rivela inequivocabile, nel verso precedente, quando «il vento passando | non lascia ombre». Poesia modulata sull’ascolto la sua, luce di riflessione, flash, narrativa del quotidiano, movimento dello spirito nel sentire «[…] qualcosa di virtuoso in una lacrima che sale | e non si piange più» (Rifrazioni a catena). E proprio perché ascolta, sviluppa attenzione, vuole catturare «un grumo di eterno» pur se subito ce lo rammenta «opaco | se l’abitudine è il grande peccato»; l’opacità viene tuttavia superata, nel congiungersi alla vita tramite segnali intermittenti rifarsi nella sua sensibilità: «Geografia spirituale di un giorno di pioggia: | visioni a cui il verso sorride e l’anima | chiosando in corsivo, si legge e racconta» (Il balcone). Da qui si apprende una forma pulsante nella sua scrittura. Di fatti, la poetessa, per dare consistenza alle sue parole, deve scovare l’illuminazione di un accadimento interno e i versi si trasformano in viaggi sulla carta. Il sentimento dell’immedesimazione non risparmia la dimensione religiosa riportata a misura d’uomo (per l’esattezza alla misura di Giuseppe, padre putativo del Cristo), soprattutto nell’estrinsecazione del dubbio quando nei versi “Dal Vangelo di Maria”, Maria si domanderà se «Giuseppe | avrà il nocciolo di un frutto già mangiato!?».
Cosa resta al fondo di questa scrittura? Il chiarore della vita «si dona per attimi», al poeta come al lettore sta la volontà di riconoscerli. Proprio in virtù di tale scoperta non sarebbe improprio definire la sua come una poesia della coscienza, o persino una poesia di coscienza: di vivere la periferia nella nostalgia del centro, così «dice il Cuore» (Il ciottolo), nostalgia e pertanto ricerca di un centro. Il noto poeta de L’elogio dell’ombra dice: “La poesia non è meno misteriosa degli altri elementi dell'Universo”, pertanto al poeta in generale non sarebbe dato di sapere coscientemente cosa stia scrivendo. Qui il sentiero di Angela Caccia non rimarca il concetto della consapevolezza in sé quanto di una rivelazione affidata alla ricchezza della parola. Nondimeno la poetessa ci avverte proprio del pericolo del ristagno interiore perché «niente è più pesante di una coscienza quieta | nel cuore a ripostiglio», e ci invita a riscoprire visioni che «formicolano attimi senza velo» (Il tempo nel tempo) risuscitati con nuovo vigore nella nostra percezione.
L’incontro sulla carta fra la parola e la grazia indica la presenza di un respiro. Il motivo del respiro è ulteriore conferma dell’avventura poetica dell’autrice, poiché ripropone un’idea che ci portiamo dalla tradizione del pensiero occidentale, il concetto di anima, non anima notoriamente avvertita quale espressione sentimentale di un pathos, bensì anima quale respiro (la psyché di origine classica), soffio dell’essere il quale dall’interno della propria introspettiva fa risalire e uscire una voce che identifica, rivela o rimanda alla realtà più interna. Ed ecco, nel ricordo di Giovanni Paolo II «un respiro scandiva la preghiera» (A Giovanni Paolo II); e se le parole stesse possono incarnare l’istante rivelatore, allora sono inciampate felicemente «nel respiro di un dio» (Giocano). Il respiro è l’impulso originario dalla quale nasce la scrittura in versi. La poesia più rappresentativa di questo soffio-fruscio credo sia Solo un verso dove l’ispirazione muove i passi dalla parabola di Paul Celan e ancora quella successiva Autobiografia dove l’impulso di dire si fa più urgente, soprattutto quando «È campo di battaglia il foglio | se cerco di dare un nome al dolore | implode […]». Un’anima avverte profonda empatia nell’ascoltare immagini-simbolo della fragilità, e allora i segni di inchiostro diventano farfalla ferita, infilzata sul foglio (Atto d’accusa). Un’anima sa, in definitiva, afferrare l’attimo sospeso e dargli forma. Nel riformulare la definizione, la sua scrittura manifesta una poesia il cui respiro è sostanza e la cui forma è consapevolezza.  
I versi di Angela Caccia non hanno bisogno di trovare modelli dai quali trarre ispirazione: veste la sua voce con un suo timbro per comunicare l’affamata ricerca nel tentativo inesausto di dar nome al cosiddetto ineffabile. Se vogliamo sapere la direzione o la forma occupata sulla pagina, basterà ascoltare il fruscio del verso e ricordare che la poesia accade «dove la coscienza si fa porto» (Senza titolo).



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