domenica 18 novembre 2012
Su Il bianco delle vele di Franco Casadei
Raffaelli Editore, Rimini, 2012. Prefazione di Antonia Arslan. Postfazione di Stefano Maldini.
recensione di Giuseppe Vetromile
Progettare e organizzare una raccolta di poesie che abbia un filo conduttore più o meno evidente, ma che abbia soprattutto un mondo omogeneo da proporre, senza eccessive sfilacciature o dettati esondanti dal contesto poetico che ribolle e preme dall'intimo, è lavoro alquanto complesso e certosino, se non si vuol realizzare una mera raccolta di versi sparpagliati e basta. Ed è importante il titolo, già segnale indicatore di quello che il poeta autore vuole dire, ed è importante l'esergo, altro faro illuminante lungo la pista, a volte impervia, che penetra nei meandri più segreti ed autentici dell'autore. Insomma, leggere un libro di poesia, di quelli che veramente hanno spessore e che scompigliano in un certo qual modo la nostra inerzia o sonnolenza di lettori poco attenti, è un'impresa che si deve affrontare col dovuto rispetto, impegno e piacere.
Mi sembra che il recente lavoro poetico di Franco Casadei, Il bianco delle vele, rispecchi in pieno quanto appena detto. L'esergo è chiaro: si parte da una citazione della Szymborska che, a parte l'assunzione di un impegno non indifferente da parte del Casadei, impegno che dimostra di mantenere e di sostenere davvero con forza e capacità letteraria, lascia perlomeno smarriti: “Ho passato tutto il giorno senza far domande, senza stupirmi di niente...” Ed è dunque da qui che partono “le vele” di Franco Casadei. Si tratta di un viaggio nella natura e nell'uomo, come afferma nel titolo la prefatrice Antonia Arslan, in cui il poeta affronta a tu per tu il mistero della morte, la sua ineluttabilità, ma anche la dolcezza, l'umanità che accompagna il mistero stesso, come per lenirlo in qualche modo, come per accettarlo: “senza far domande, e senza stupirsi eccessivamente”, appunto: «Dovrà morire l'uomo, la pianta / e l'ape indaffarata, / patire sfregi, chiodi sulla carne e l'odio...», scrive Casadei nella poesia di apertura, come a voler prendere le distanze da tutta una congerie di cavilli e di tentativi vani per vivere una vita che sia soltanto rose e fiori. Ma qui non è rassegnazione, attestazione di una verità che, purtroppo, ci sta sotto agli occhi tutti i giorni: il dolore esiste, esiste la sofferenza, esiste la morte; ma l'intento del poeta è quello di andare oltre, scavalcare i confini dell'ineluttabilità umana e naturale, per cercare più in là: «... lo spazio aperto degli uccelli / sfidare il peso della terra che mi attira / osare il volo senza alcun riparo..». Del resto, Casadei sa bene cosa sia il soffrire e il patire: la sua professione di medico alimenta la sua poesia di quell'umanità, di quella consapevole vicinanza, rendendola più lucida e più vera, ma senza inutili pietismi, senza esondare eccessivamente nell'amarezza e nel pianto.
L'apice di questa sua costruzione poetica, misurata ma pregna, come dicevo, di grande umanità e spiritualità, possiamo trovarlo forse in una poesia davvero toccante, Bruno e Rosalba, dedicata ai suoi fratelli di 11 e 12 anni annegati in un torrente sulle colline romagnole, come leggiamo nella nota a pie' di pagina 18: «Quella sera, dopo la fiumana, la riva / sfaldata al gioco delle vostre corse / ingenue, non siete tornati», recita con profonda nostalgia il Casadei, e poi conclude: «... quel ventuno settembre piangevo / per venire al fiume, avreste custodito / i miei tre anni, vi avrei salvato, forse, / forse avete salvato me». Traspare quasi evidente in questa chiusa il dolore contenuto, il rimpianto per non aver potuto fare nulla per salvare i due fratelli, ma nello stesso tempo emerge dai questi versi finali una sorta di catarsi, una palingenesi privata, interiore, che nonostante tutto, rende forze nuove e salvifiche: «forse avete salvato me»!
In questo senso il titolo, Il bianco delle vele, può essere inteso come una sorta di purificazione, di distacco dal male e dalla morte, dalla sofferenza e dalle perdite: un crogiuolo di memorie fondamentali, necessarie per guardare avanti, nella consapevolezza che l'uomo è carne non duratura, ma è anche spirito che si eleva, che va oltre, nell'eterno viaggio del cosmo verso la sua piena realizzazione. Non a caso, subito dopo Bruno e Rosalba, Casadei inserisce nel suo libro Diventerò ancora te, mia terra: «... diventerò ancora te, mia terra, / ascolta, ascolta che matura il grano». E qui, il senso della speranza, della continua evoluzione dell'uomo attraverso gli eterni cicli di vita/morte/rinascita, è evidente.
Si potrebbe continuare il lungo viaggio nel mondo poetico di Franco Casadei, con il “bianco delle vele” che spiccano di umanità sulla sua nave terrena. Ma penso che questa mia breve riflessione sulla sua poesia possa dare un suggerimento, anche minimo, ai lettori attenti, affinché possano approfondire ulteriormente questo libro, scritto con mano sapiente e sicura di un poeta che merita certamente grande considerazione nell'attuale panorama letterario e poetico nazionale.
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