lunedì 17 settembre 2012

News da Adele Desideri

Amici

vi segnalo alcuni eventi

*Recensione di Adele Desideri a Paolo Ruffilli, Affari di cuore, Einaudi 2011, pubblicata in http://www.literary.it/dati/literary/d/desideri_adele/affari_di_cuore.html
, n. 6, giugno 2012. In allegato

*recensione di Adele Desideri a Silvio Raffo, Al fantastico abisso, Nomos, 2011, ne Il Quotidiano della Calabria, rubrica Libri e Letture, 11 giugno 2012, pag. 45. In allegato

*Consiglio la lettura del romanzo di Alessandro Moscè, Il talento della malattia, Avagliano, 2012
“Quando uno scrittore può dire di essere stato uno dei pochi guariti da un male crudele e raro, allora non può esimersi dal raccontarsi. Alessandro Moscè lo fa a distanza di trent'anni ambientando e riconoscendo gli archetipi dell'esistenza umana che in questo romanzo ci sono tutti: la nascita, la morte, il senso di finitudine, la perdita, il mito, la fede. Un famoso calciatore diventa il viatico per far fronte ai luoghi di separatezza dalla vita, gli ospedali. Giorgio Chinaglia, mito della Lazio degli anni '70, era già un "compagno insostituibile" di giochi nell'infanzia, incarnato fantasiosamente come soggetto di fedeltà al quale appellarsi nella solitudine. Nel romanzo figura una marcata caratterizzazione dei personaggi della quotidianità: i nonni, il padre, la madre, la suora delle elementari, l'anziana signora dei vicoli, l'omino della casa di riposo, il luminare della medicina. Si apre uno spaccato sulla provincia italiana che confluisce in una dimensione-altra con la comparsa della malattia, a soli tredici anni. Ma si avverte, in fondo, che il dolore è stato anche un'occasione per riaffermare la vita”.
Scheda del libro in www.ibs.it/code/9788883093425/moscegrave/talento-della-malattia.html

*Consiglio la lettura della raccolta di poesie di Maddalena Capalbi, Nessuno sa quando il lupo sbrana, prefazione di Anna Maria Carpi, La Vita Felice, 2011
“«Nessuno sa quando il lupo sbrana» dice Maddalena Capalbi in una poesia della prima parte di questa raccolta, che vede un perturbante andirivieni delle figure della madre e del padre con qualche sporadica apparizione di congiunti poco amichevoli quali uno zio dalle dubbie intenzioni (Lo zio ricco) e una zia suora che “non perdona” (Le pecorelle). Non siamo difatti in presenza di una lirica monologica bensì dentro un serrato dialogo di un soggetto femminile col suo ben visibile contorno famigliare, di una bambina-adolescente-giovane donna ora sottomessa ora ribelle, ed è alla ribelle che si deve quest’eruzione poetica che conosce tanto la dolcezza dei moti di pietà quanto i tormenti della sete di vendetta: farà «in tempo a difendersi», si chiede, su una strada che non conosce, a mantenere un «viso combattente»? L’interrogativo va ben al di là della storia personale: dice l’incertezza di noi tutti.” (dalla prefazione di Anna Maria Carpi).
Scheda del libro in
www.lavitafelice.it/autore-maddalena-capalbi-699.html

*Consiglio la lettura del poemetto di Franco Romanò, Il ritorno, Smerigliana, n. 9, Librati edizioni, 2008. In allegato

*Le orme e una colomba raccolta di poesie inedite di THuy Lan (trad. “meravigliosa orchidea”) Francesca Ritondale, nata a Thai Nguyen (Vietnam) il 14 giugno 2001. Frequenta le scuole elementari, studia il violino, è schermidora. Nei suoi occhi riverbera una misteriosa luce. Potete leggerla nel sito Fara Editore di Alessandro Ramberti  http://farapoesia.blogspot.it/2012/05/le-orme-e-una-colomba.html


Lieta con voi

Adele Desideri


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Affari di cuore

L’ultima raccolta poetica di Paolo Ruffilli, Affari di cuore, tratta il duplice tema della passione amorosa e di quella erotica: se la prima conosce la gioia e l’infelicità, il dialogo e l’incomprensione, la generosità e l’egoismo, la seconda è segnata dal piacere e, talora, dalle venature di sadismo che affiorano quando l’attrazione è totale, esclusiva, incontenibile.
Quasi fosse simile, il corpo amato, al cibo delle origini, al latte della fase orale neonatale, per intenderci, studiata da Freud e da altri psicoanalisti.
In particolare, Margaret Mahler e Melanie Kleine hanno ben sottolineato il rapporto simbiotico del bimbo con la madre, il suo desiderio illimitato di fagocitarne, di distruggerne il seno.
Ruffilli dà voce a questa sorta di “cannibalismo inconscio”, rintracciabile nei più travolgenti legami affettivi, rendendolo un aspetto naturale e al tempo stesso illecito, e perciò accattivante: “la saliva scivolata | con gli stracci | dalla lingua | e altra polpa dolce | masticata | di pesca e di albicocca | in una fresca delicata | mangiata mia di te | della tua pasta. | E nell’ingurgitare | lì ho sentito | che mangiando | andava gonfiando | l’appetito. |”.
Incedere spezzato, utilizzo frequente dell’enjambement, un fiume di immagini che procede per anse e dirupi, che si ferma e poi riprende il corso, deciso, intenso: Ruffilli compone, in tal modo, versi brevi e franti, che si richiamano a vicenda, dopo le cesure, dopo le apparenti digressioni. Assonanze e rime creano, intanto, un fluido senso d’insieme, un’impressione di tracimante, malinconica musicalità, un ritmo elegante, subito individuabile come la cifra lirica del poeta: “Il tuo fiore | ben protetto | preservato sottoposto | custodito nelle strette | coronato perfino | dalle spine | (…) | in difesa vigilato | sul confine | da una lama più | sottile | che smarrita però | non mi recide | mentre avanzo | con le dita | per amore | dentro la ferita. |”.
Il termine passione rimanda etimologicamente al vocabolo “patire”. E in Affari di cuore, più che non negli scritti precedenti di Ruffilli, è marcata la dimensione della sofferenza, o meglio, della delusione, e poi del mancamento. Ogni desiderio dell’uomo, infatti - nel momento in cui viene gratificato - già anticipa nuovi bisogni, in un continuum costante di insoddisfazione, che trova il culmine nella noia, nel disinteresse, nel tradimento: “Il cuscino | che è riverso | la coperta laggiù in fondo | ricacciata a terra | la traversa schiodata | dalla parte che serra | il lenzuolo disperso | su cui, distesa, | sei stata | schiacciata dal peso | del mio | sopra il tuo corpo… | (…) | nel vuoto della tua | amatissima presenza | rimasta qui stampata | inesausto aspetto e | contemplo | la sacra | sindone del letto. |”.
Sembra affermare, tuttavia, Ruffilli, che se nelle questioni d’amore o in quelle erotiche è facile ferire o essere feriti, chi le evita, in realtà, non gusta appieno la vita.
Di recente, qualcuno ha introdotto una lezione su Pascoli con una riflessione che cito a memoria: “la guerra, il sesso, l’amore, Dio e la poesia sono sempre presenti quando è presente l’umanità”.
Gli “affari di cuore” riguardano l’amore, il sesso, la guerra e la poesia, l’uomo quindi, che negli “affari di cuore” comprende ciò di cui è privo, ovvero percepisce, con un filo di perenne inquietudine, la sua esistenziale impossibilità di toccare il cielo con un dito: “stavo sul piccolo | divano del giardino | leggendo | di Paolo e di Francesca | dispersi nell’aere dell’inferno. | E tu di già partita | fissandomi, discesa | e risalita di nuovo sulla bici, | piangendo mi chiedevi: | «Perché siamo infelici?»”.
Adele Desideri

Pubblicata in



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Silvio Raffo, Al fantastico abisso, Nomos, 2011, pag. 109, euro14

Silvio Raffo - poeta, romanziere, saggista e traduttore - nella sua ultima raccolta di liriche, Al fantastico abisso, affronta i temi della bellezza, dell’amore, della solitudine, della morte.
Con l’eleganza che gli è propria, dispone sulla pagina un alternarsi di versi misti e morbidi endecasillabi, sui quali Maria Luisa Spaziani ha speso parole d’elogio. E crea, così, un effetto di preziosa musicalità, un senso diffuso di gentile armonia di suoni, di immagini, di sentimenti.
La notte è l’abisso che attira, avvolge, e poi luttuosamente protegge. È simbolo dell’orror vacui che seduce il poeta - ogni poeta - e ne affligge l’esistenza, è sembianza dell’intimo anelito di comunione d’affetti che è nell’uomo - in ogni uomo: “Nel tuo grembo m’immergo/ notte - o notte -/ io che donna non seppi/ scosto il lembo/ del tuo lenzuolo/ o notte - notte fitta, oscuro nembo/ di tenebre/ confuse ininterrotte/ pozzo delle mie brame/ linfa liquame folto/ annegami dissolto in te pietosa/ io t’amo ninfa ascosa/ o notte solo mia/ vertiginosa//”. La vita quotidiana, allora, appare segnata da una costante minaccia: la possibilità, sempre in agguato, di una perdita totale di significato.
E l’amore è un sogno proiettato in un futuro improbabile, desiderato eppure al tempo stesso rifiutato, quasi l’autore sapesse che non appartiene al suo destino, che per lui unica compagna sarà l’assenza: “Avremo una terrazza e lunghe estati/ in un villaggio sulla Costa Azzurra/ ed aromi d’incenso e nardo e mirra/ e languidi ragazzi addormentati/ sul ciglio di piscine d’acque chiare/ Nell’aria vibreranno le lontane/ canzoni del passato, e in coppe rare/ berremo il succo delle melegrane/ Dalla veranda tacita e serena/ mia madre ci richiamerà per cena//”.
Nell’intensa Lettera alla madre - una vera e propria perla di poesia - Raffo racconta, con tenere vibrazioni, gli anni duri della fanciullezza, il dolore della crescita, l’amatissima, totalizzante presenza materna: “Qui piove a scrosci, mamma, e la mia stanza/ come un’urna fasciata di silenzi/ accoglie ancora e sempre il solo incanto/ del tuo ritorno (…)/ (…)// Si preannunziava in torbidi marosi/ - primavere deserte prime morti -/ da spiagge grigie al varco dell’infanzia/ e lo stornavo a notte contorcendo/ il mio corpo sgraziato di folletto/ come cieco viluppo del tuo cuore,/ nodo della tua carne, mentre l’anima/ crocifissa al tuo pianto, al tuo sorriso/ balbettava le formule sconnesse/ d’un rito inteso a trattenerti viva/ oltre l’inquieto flusso respirante/ del mio sangue infecondo.//”.
Tuttavia, l’esito non è solo negativo: a Raffo resta - al di là delle ferite e delle disillusioni - un bene supremo, quello della grazia, intesa in primis quale valore estetico:  “Certo mi rivedrò fermo a una riva/ a contemplare in forme immote e sole/ la grazia nuda della perfezione./ (…)/ (…) sarò solo,/ di nuovo, come l’attimo che scorsi/ dipinto nella pietra il mio destino/ quando mi rivelò cortese il cielo/ che dura l’agonia per una vita.//”.
Se dovessimo trovare uno spunto per indicare la luce trepida che questo libro di Raffo irradia, richiameremmo alla memoria Orazio, Seneca e Pascoli, i loro testi pregni di sottile ironia, di rassegnate, raffinate riflessioni filosofiche, di metafisica malinconia. Come un controcanto, ascolteremmo, allora, i versi di Raffo, simili al timbro delicato e teso, limpido e struggente della cetra: “Sto, nel fragile sole di settembre,/ seduto su un muretto scortecciato/ Son solo e come sempre sorridente/ Non aspetto nessuno - al mio passato,/ all’amore e alla morte indifferente//”.

Adele Desideri

Pubblicata ne Il Quotidiano della Calabria, rubrica Libri e Letture, 11 giugno 2012, pag. 45




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IL RITORNO

I

Giunsi dopo di lei alla deriva
l'oscuro già l'aveva avvolta
e quando vidi il gorgo che s'apriva
e mulinando si chiudeva
mi arrestai sgomento…
Due leggi si affrontavano feroci
due belve tatuate nella carne…

Sentivo su di me occhi segreti
e le tenebre appena alzate in volo
confondevano la scena, il mare
un sipario disteso e la platea
un cielo ed il tumulto sotto 
una belva rappresa.

Quando fui pronto me li vidi accanto.
Erano in tre e il primo disse:
solo a me dovrai rispondere
va' dunque e sii veloce,
dimentica il tuo canto
prima che il freddo ti travolga e il peso.

Così parlò il secondo:
non il tempo dovrai temere
ma la luce degli occhi
tieni lo sguardo fisso al filo.

Toccò parlare al terzo:
né il tempo né lo sguardo
ti sono nemici ma il doppio
che ognuno rode in proporzione
e l'una fiamma all'altra paga il prezzo.

Ma già non ascoltavo e più vicino
al punto dove il gorgo mi attirava
vidi l'acqua oscillare
e l'orizzonte splendere come un
diadema di pupille fisse.
Mi gettai deciso fra le urla e i flash…
Fui lesto ad afferrare il filo,
cadevo a piombo e giunsi in fretta.

II

Il luogo era assopito nei miasmi
e un novembre eterno lo copriva,
un tonfo sordo ed isomorfo,
il vento il fiato di una iena
unico rosso un accecante faro, 
l'orribile parvenza della luce.
S'agitavano le ombre nel crogiolo,
il torchio di umidi sottili
tutte le impregnava e verso il fondo
inesorabile le trascinava.

Soltanto il filo riluceva
divorava la strada verso l'alto
verso l'alto e la luce vera…
guardando dove il gioco parallelo
si trasforma in mani congiunte
vedevo la scintilla, n'ero certo
il tremito di un numero periodico,
la fragile candela dire vieni,
qui c'è una casa, un fuoco acceso….
Scendevo ancora e ad ogni balzo
usciva l'orrore dai suoi viluppi
e dalla nebbia livide le forme
e un suono d'ovatta basso e denso,
un roco fuoco di voci rapprese.
Vidi la cagna che l'aveva uccisa
con il silenzio e la mano che di lei
fu l'arma, aggrovigliata al volto
disocchiato di un amante vile…
Raggiunsi un punto vuoto
il vero fondo, là dove figure
sempre più dense e impantanate
sprofondavano e l'occhio
che le seguiva stralunava
i suoni dentro il gorgo rallentando
così che ciò che udivo e vedevo
si univa nell'impasto di ogni senso
fino al gradino ultimo del gelo.

III

Quando tutto si calmò mi ritrovai
rivolto verso l'alto e sentivo
dietro di me scuotersi il filo 
così che l'onda era per me oro
d'intimità con lei e piombo.
Mantenevo costante il movimento
ma il freddo induriva la mia pelle
più avanzavo più divenivo ghiaccio.
Risuonarono le parole del primo
e mi affrettai ma non so come
mi sembrava di essere fermo
e allora alzai gli occhi e in lontananza
vidi la scintilla, il tremolio e
fu il conforto. Ma l'attimo si spense,
alzai di nuovo gli occhi di ch'implora…

Non è vero ciò che dissero di me
chi di noi dispone secondo legge
e muta i corpi di chi scende
e disordina ogni direzione
fece quello…Me la trovai davanti
che andava nell'opposta via,
lei la tanto amata, già divenuta
grotta di sé, parola di granito.

IV

Balzai nell'aria come un urlo perso
e caddi come un mimo disossato.
Quando toccai la dura terra
vidi il mio strumento abbandonato
che girava già di mano in mano
e il canto un suono dissipato
correva tra le folle della spiaggia
avvelenava i figli e rimbalzava
come un eco distorto di quell'oro.
Ero solo con il mio fiato…
E vidi il quarto, il signore
dell'enigma e dell'oblio incidere
nel cerchio dove tutto è prima
che scritto il segno del silenzio
perché un altro immemore riscriva.

Franco Romano, Il ritorno, Smerigliana, n. 9, Librati edizioni, 2008 

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