mercoledì 30 maggio 2012

Su Abitare la cecità di Dante Maffia


recensione di Vincenzo D'Alessio
La casa,  scelta dal poeta Dante Maffia per ambientarvi la sua raccolta di  versi,  è  in una “posizione magnifica”, tanto in alto che il vento trasporta “risonanze sconfortanti / e insinuava brutte reminiscenze” (pag. 31). Un cubo di cemento disposto in città, dove “una marea d’abitudini buffe, / un indaffarato via vai di gente”  si alterna al “silenzio, chiuso / nel buio di significati inesplosi” (pag. 31). I versi contenuti in questa raccolta si posizionano in punti cardinali che guidano il lettore da Nord a Sud, e viceversa, in un viaggio senza tempo dove le metafore, le anafore, l’enjambment, l’onomatopea (lo scrocchiare, pag. 43), il racconto, reggono la parola come  travi di quella casa per svelare le ragnatele, i tarli, la polvere che la memoria ha disseminato.
 “Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so chi va e chi resta” (E. Montale, La casa dei doganieri) Come  nei versi del Nobel Montale, così nei versi di Maffia i ricordi abitano “la cecità”, la dimenticanza involontaria, predestinata dal perturbante alla familiarità del passato, per non soffocare il presente in quel “ dolore molto particolare / che nasce dai ricordi” (pag. 46). Tutto il passato sembra morto quando il quotidiano ci addenta come “Una muta di cani / (che) sopraggiunge abbaiando / nella piazza del mercato” (pag. 11). L’Io poetico sceglie involontarie presenze amiche, anche negli oggetti ritrovati in soffitta, per narrare quanto dura possa essere la cecità di quei luoghi della memoria, di quei lunghi istanti di vita, che appaiono e scompaiono come nelle vecchie foto dagherrotipo o come nella pellicola del film di Federico Fellini Amarcord.
Il Nostro però cerca il dialogo con il lettore e lo fa lasciando agli oggetti, come la rivista di moda “Marie Claire”, a B. Bardot; nelle lacche da grammofono con il simbolo del cane targate “La Voce del Padrone”; alla Barbie; alla poesia olfattiva come nei poeti futuristi: “una chewing-gum (…) / ma non puzza”. E ancora: “Oppure c’è una ragione occulta / che delinea il superfluo e ne fa aromi / per purificare le ragioni del diluvio annunciato” (pag. 45), il compito di far cadere dagli occhi le squame di quella cecità che cela il percorso verso “l’infanzia accucciata”. Non è nostalgia, non è rimozione, ma volontario ritrovarsi con un mondo oggi lontanissimo “motivi trapassati”, di appena mezzo secolo fa. La seconda parte del nostro Novecento, quello del “non chiederci la parola “ di Eugenio Montale, ripreso nell’esclamazione di Maffia: “Povero Montale ! Credeva che le parole / avessero la filigrana come quella / della carta moneta” (pag. 42.) Oggi divenuta pura realtà.
La chiave per aprire la porta della casa dove abita, in penombra, “ma era così bello vederlo felice” (pag. 27); “non farlo sconfinare nella gioia” (pag. 29); “in totale allegria” (pag. 38); “mette allegria” (pag. 40); “La felicità arrivò come un tuono” (pag. 43); è la magmatica ricerca di un approdo al lunghissimo viaggio nella memoria dove il poeta, trasporta il lettore, indicandogli la valenza della parola e il fondamento della realtà: “Qui il passato non è dimenticanza, / ma docile danza d’un domani / che esiste ma non s’avvererà” (pag. 45).
Così prendono forma, di rimando, tutti i richiami al passato come gli scrosci della pioggia, goccia dopo goccia, sulle tegole della casa abitata: “Il Pollino”, montagna nell’Appennino calabro lucano; “il senale”, conosciuto anche come “mantisino” o grembiule; il “Ciuto”,  che sarebbe nel dialetto calabrese “lo scemo del paese”; la città di Sapri, nel Cilento, con la sua spigolatrice ricordata nella poesia di Segantini; le famiglie contadine colme di figli e di abitudini oggi “barbare” ma allora consuete di fare i propri bisogni nell’orinale e il lavarsi nell’unica acqua messa scaldare sopra al fuoco dell’antica cucina in muratura; le città di  Napoli, Barletta, il servizio militare affiancato al “Deserto dei tartari” di Dino Buzzatti; insomma tutta la magnificenza di quella “meridianità” che Franco Cassano delinea nel suo ottimo lavoro critico: Il pensiero meridiano (2010).
La raccolta è divisa in sette sezioni. Il numero sette compare ancora nella poesia Promiscuità (pag. 37),  a simboleggiare la cifra apotropaica scelta dal Nostro per sviluppare un poema nella raccolta e affidare a questa cifra un significato nascosto. Un viaggio nella nostra storia. Un ritorno, ai paesi che  appartengono all’anima;  alle case che non tutti vedono, che “avevano i muri scalcinati / sui quali si potevano leggere / ancora le scritte delle campagne elettorali” (pag. 35).

1 commento:

Alessandro Ramberti ha detto...


Caro Vincenzo,
che dirti se non un semplice grazie ma con il cuore e con l'anima,
lo stesso cuore e la stessa anima che hai messo nel tuo scritto
che mi ha commosso per la sua profondità e la sua bellezza?
Ti sono molto grato e spero che prima o poi venga l'occasione per dimostrartelo concretamente.
Ancora grazie.
Ciao.
Dante.