Ora sono troppo stanco per ricominciare. Ho sentito
strani presentimenti e so che presto dovrò scendere. La vita è ricordarsi di un
risveglio, sentire l’aria pungente, sedersi accanto a una giovane donna. E
andare nell’alba, controluce.
Ho sfogliato migliaia di libri e iniziato centinaia di
progetti. Solo progetti e nessuno mai giunto a compimento. Una vita di rinunce
la mia, e qualche volta di perdite. Chissà, se avessi percorso l’altra strada,
quella indicata da Robert Lee Frost… o se la giovane Helen fosse arrivata puntuale
in ufficio e non fosse stata licenziata…
Ho sempre preferito Guicciardini, l’uomo del
particolare, l’uomo del dubbio e delle eccezioni. E così mi sono perso. A forza
di studiare i particolari, il mio cavallo non vide mai la sua realizzazione. Me lo disse anche M.me Jeuland, un
giorno, quando la incontrai ad Aix en Provence per quel dottorato di ricerca
che non ebbi mai tempo di terminare, e sono ancora lì ad aspettare.
E ancora guardo il treno passare con i ragazzi
vocianti, così come lo vedeva Pier Vittorio Tondelli nel suo Viaggio a Grasse,
e mi accorgo terribilmente di non essere più su quel treno. Non mi appartiene
più.
Così mi piace ritrovarmi anch’io in bilico: «Sono
rimasto più di quarant’anni / alla
finestra / e sono ancora incerto». Roberto Amato che scrive questi versi non ci
dà risposte, solo avverte il bisogno di testimoniare una storia mai scritta
chiusa in una pagina bianca. È anche questa una risposta alle ragioni della
propria esistenza. Luciano Ladolfi, nel recensire La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov, metteva in evidenza
come il successo non dovesse essere posto come «valore assoluto», perché non
avrebbe potuto procurare «la soddisfazione più profonda». Da esso non sarebbe
potuta dipendere la nostra felicità e avremmo concluso come Gabriele D’Annunzio
nel Notturno, in «una disposizione di
interiore ripiegamento che sovente approda alla cupa malinconia di un fallimentare
bilancio dell’esistenza».
Così ho chiuso. Ho chiuso con i concorsi, i premi di
poesia, gli incontri. Mi sono rimasti soltanto alcuni sporadici interventi
nelle scuole, faccio parte di alcune giurie, scrivo quando posso e sempre di
meno, ma leggo, leggo e studio. Forse la causa è questa, la lettura mette a
confronto, implica un rapporto tra autore e lettore, un aggancio, è un dialogo
e nel dialogo ci si configura, si parla, si comunica. E si scopre, soprattutto
si scopre l’altra verità, ciò che non si conosce, perché «discovrendo solo il
nulla s’accresce». Jules Bernard scrisse: «Quando penso a tutti i libri che ancora
mi restano da leggere, ho la certezza di essere ancora felice». Io invece no,
questo pensiero mi genera tristezza, per non dire angoscia, il pensiero di
quanti libri mi restano da leggere mi getta in uno stato di frustrazione. Così
passo in rassegna nel mio studio tutte le collane, le enciclopedie, i saggi, i
romanzi, i libri di poesia. Quanti libri ho letto e quanti da leggere! Ne avrò
il tempo? E quando potrò scrivere? Ho qualche raccolta di versi, alcuni romanzi
incompiuti, qualche racconto, alcuni saggi che, forse, mai vedranno la luce.
Anzi non la vedranno, ne sono certo. Ma solo quando scrivo sento in qualche
modo di appartenermi. Sono un semplice operatore di parole, ed è già tanto. Sono
davvero pochi quelli che hanno osato definirsi poeti. Josif Brodskij fu uno di
questi. Processato fu condannato
come parassita della società da un tribunale sovietico. Tom Harrison sulla sua
carta di identità aveva fatto scrivere «poeta». Ne conosco pochi altri,
sorpresi in qualche rara intervista, ma Edoardo Sanguineti era stato
chiarissimo nell’affermare che la qualifica di “poeta” viene data dal pubblico,
mai dal soggetto, perché per
definirsi poeta è necessario avere una buona dose di coraggio e di presunzione.
Piene di buon senso e leggere sono le parole di Fabio Pusterla: «Io non so se
qualcuno possa dire di sé con certezza e a cuor leggero: “Sono un poeta”. … poi a uno vengono in mente le grandi
figure poetiche, e sì, si vergogna un po’, avverte tutto il peso della sua
inadeguatezza». E questa è un’ultima certezza che in un certo senso mi libera
da un peso perché «la poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro», come diceva
Franco Fortini che concludeva: «ma scrivi».
«Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza
per non cadere nella disperazione», affermava Paolo VI rivolgendosi agli
artisti nella chiusura del Concilio Vaticano II. E aggiungeva: «La bellezza,
come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso
che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare
nell’ammirazione». Con questa ultima certezza vado ripassando le parole di
Antonia Pozzi: «E vivo della poesia, come le vene vivono del sangue».
È questa la conquista della mia Verità. Bellezza e
Verità, scriveva Emily Dickinson, sono le strutture portanti della poesia. Non
c’è Bellezza senza Verità e non c’è Verità senza Bellezza.. È il grande salto,
la conquista del senso che si dà alla vita, in una scala di valori che mette al
primo posto la famiglia, poi il lavoro, gli amici e solo all’ultimo posto il successo.
Alessandro Carrera, dovendo organizzare nel 1979 una tavola rotonda su canzone
e poesia, pensò di invitare Antonio Porta. La risposta di quest’ultimo era
stata brusca: «No, guardi, non faccio più di queste cose, ho un figlio da tirar
grande». E poi ha senso fare questi incontri, o, come si dice oggi con un
termine che va molto di moda, hanno senso questi reading? Trenta persone (e
sarebbe già un successo) tutti ad ascoltare, tutti poeti, se l’oggetto è la
poesia, o quasi tutti poeti. Anche questo è curioso. Gli incontri di poesia
sono gli unici incontri in cui relatori e pubblico si assomigliano o
addirittura si identificano. Il poeta racconta e parla a se stesso, al suo
alter ego, ad altri poeti. Ma i poeti non mancano, ciò che manca è il pubblico:
«Il problema non è comporre poesie, il problema è trovare qualcuno che le
ascolti», scriveva Jarrel Randel in Il
pipistrello poeta.
L’esistenza non è una infinita certezza, tanto meno lo
è la scienza. Il dubbio è ciò che muove le cose, la ricerca è una spinta verso
la verità, e la verità è sempre in divenire. Questa è la spinta che muove la
scienza, perché la scienza è ricerca e la ricerca parte da ipotesi che vanno
controllate. Bisogna sempre diffidare da chi crede di avere la verità in tasca.
Il mito di Ulisse si fa carne, diventa attivo, è ancora vivo. È il mito di cui
parla Erich Fromm. È la mia storia. Ed è una amara saggezza leggere i versi che
donai un giorno ai ragazzi.
Quando ero giovane avevo ali forti e instancabili
ma non conoscevo le montagne.
Quando fui vecchio conobbi le montagne
ma le ali stanche non tennero più dietro alla visione.
Tutto il senso della
vita pare raccogliersi qui, in questa disperata e amara ricerca di un bene
troppo lontano per raggiungerlo e troppo vicino per riconoscerlo.
Eppure sapevo che, nel sottolineare le perdite, le
cose mancate, i pensieri non detti, si realizzava un compito educativo di
grande importanza. Intuivo che bisognava servirsi della letteratura e dei
libri, di ogni libro, come strumento di formazione. Perché «ogni libro letto è
profitto» scriveva Cristina Campo. Perché i libri servono, aiutano a crescere,
sono strumenti di confronto e non solo: ci rendono migliori, più allegri e più
liberi, secondo Corrado Augias, e a volte possono salvare la nostra libertà e
la vita stessa. Nel libro c’è tutta la storia dell’umanità e la nostra storia.
C’è la Storia Infinita dell’uomo e della nostra vita, e non è un caso che il
giovane Bastiano Baldassarre Bucci, inseguito dai compagni, si rifugi in una
biblioteca in La Storia Infinita di Michael Ende.
Quanti insegnamenti, quanti principi si possono
raccogliere dai libri! I libri diventano allora strumenti di formazione e
contrastano apertamente con i modelli di oggi. Ormai la parola è morta, è
vuota, è diventata slogan e lo slogan, diceva Alberto Moravia, non è altro che
la morte della parola. In maniera più forte il poeta inglese Wystan Hugh Auden:
«Quando le parole perdono significato, la forza fisica prende il sopravvento».
Quale difficile compito spetta allora alla scuola,
agli educatori, ai docenti! Eppure nei libri c’è tutta la nostra storia, ci
sono i nostri valori. Anche nelle favole. Raccontare le favole ai bambini è un
atto dovuto. Eppure, trovandomi tra ragazzini di scuola media, mi sono accorto
che pochi, pochissimi conoscono le favole. Pochi, pochissimi sono gli adulti
che le raccontano. Eppure ricordo ancora la figura di quel principe sempre
triste che avrebbe sorriso soltanto se avesse indossato la camicia dell’uomo
più felice del mondo, ma quell’uomo felice era talmente povero da non avere
nemmeno la camicia addosso. Bell’insegnamento per il mondo di oggi dove tutto
si misura in termini di successo e di ricchezza. E Diogene forse non amava di
più il sole, la luce, invece della ricchezza e del successo preferendo vivere
nella sua botte? Chissà se Miguel Hernàndez, il poeta spagnolo morto in carcere
nel 1942 a soli 31 anni, ricordasse il mito di Diogene quando rispondeva a
Pablo Neruda di preferire, tra le tante cose possibili, «pascolare un branco di
pecore».
La vera felicità è dentro, è nelle piccole cose.
L’abbiamo imparato dai nostri padri, dai classici della letteratura, dalla
filosofia, studiando. L’abbiamo imparato e troppo presto dimenticato. Perché
tutto il senso che si deve dare all’esistenza è là, nel dubbio, nella paura di
intraprendere viaggi troppo rischiosi, nella barca di cui parla Luzi, o in
quella di Edgar Lee Masters ferma nel porto, ma con il desiderio mai sopito di
inoltrarsi nel mare aperto e nello stesso tempo di temerlo questo mare con le
sue insidie:
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a
follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio –
è una barca che anela al mare eppure lo
teme.
E Mario Luzi:
I pontili deserti scavalcano le ondate,
anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai? Aggiungo olio alla lucerna,
tengo desta la stanza in cui mi trovo
all’oscuro di te e dei tuoi cari.
La brigata dispersa si raccoglie,
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? Ti spero in qualche porto.
L’uomo del faro esce con la barca,
scruta, perlustra, va verso l’aperto.
Il tempo e il mare hanno di queste
pause.
Proprio così, ogni
tanto c’è qualche pausa, cerchiamo allora di apprezzarne il valore prima che le
energie lascino che le nostre ali stanche si abbandonino lungo i fianchi come
remi pesanti, come capita all’albatros prigioniero dei pescatori, cantato da
Baudelaire:
Spesso, per divertirsi,
gli uomini dell’equipaggio, prendono degli albatri, vasti uccelli marini, che
seguono, indolenti compagni di viaggio, la nave scivolante sugli abissi amari.
Ma quell’albatros
maestoso in volo solca però i mari e i cieli. Lasciamo che anche il nostro
spirito prenda il volo, perché non ci capiti di doverci ritrovare un giorno a
dire:
Come è triste la storia
del bruco che guardando la farfalla disse:
«Lassù io non ci
arriverò mai!»
Così, per non ritrovarci un giorno a dire con
amarezza di non aver osato o tentato nuovi percorsi, cerchiamo, anche
rischiando, come capitò alla povera formica caduta dal filo d’erba più alto che
aveva il giardino, di vedere le stelle:
La hormiga medio muerta La
formica mezza morta
Dice muye tristemente: Le
risponde tristemente:
«Yo he visto las estrellas.» «Ho visto le stelle.»
Così nella vita. Ci
vuole sempre un po’ di entusiasmo e la riscoperta di quei valori che stanno
nell’Essere e non nell’Avere, per ricordare un libro famoso di Erich Fromm che
sarebbe bene andare a riprendere. È il messaggio che ci lascia il giurista in
una famosa novella di Čechov, dopo aver esclamato: «Tutto è nullo, fragile, illusorio e ingannevole come il miraggio».
O ancora sarà più desiderabile la storia di Gustav Aschenbach che arriva alla
morte dopo aver apprezzato la forza diabolica del sogno e della bellezza come
unica forma di esaltazione, di semplicità e di grandezza? Così mi ritrovo a
chiedermi con queste parole di Majakovskij:
Se accendono
le stelle,
vuol dire forse che a
qualcuno servono,
che è indispensabile
che ogni sera
sopra i tetti
risplenda almeno una
stella?
Allora si capisce come
tutto diventi più semplice, come tra le crepe della memoria ci siano cose e
affetti da riscoprire e come ogni istante si riempia del senso vero di questo
cammino.
Così la luce si spegne, il dubbio diventa l’attesa
verso qualcosa che dovrà accadere, la vita si raccoglie nel suo punto estremo.
È tutto scritto. È nella lunga lettera che il prigioniero teneva in mano e con
la quale giustificava la scelta di rompere il patto che aveva fatto con gli
amici decidendo di uscire dalla cella, dove per scommessa era stato rinchiuso,
cinque minuti prima della data fissata, perdendo così i due milioni che gli
erano stati promessi. È in questa lunga lettera che conclude il racconto La scommessa di Anton Čechov e che apre un’altra e più profonda
pagina di riflessione sui veri valori della vita.
Quante volte mi sono perso dietro quelle parole!
Dietro l’urlo c’è sempre il vuoto. Anche l’Arte è vissuta in questo estremo
duello. L’artista si sdoppia e grida di terrore prima di essere vinto, secondo
Baudelaire, o si rifugia nella fuga, nel deserto di Harar come Rimbaud. William
Wilson uccide il suo doppio, l’arte si azzera all’occhio dello spettatore. Nel Don Chisciotte di Orson Wells, il film
al quale il regista inglese lavorò per 15 anni senza riuscire a finirlo, Don
Chisciotte avanza, colpisce e taglia finché arriva a scoprire il vuoto dietro
lo schermo, il nulla. Dietro lo schermo dove scorrono le immagini, c’è il
vuoto. Così capita al giovane studente oggetto dell’analisi di Giorgio Agamben
in L’uomo senza contenuto: di fronte
al quadro, frutto del lavoro di dieci anni del suo maestro, vede solo righe
senza senso. È Il capolavoro sconosciuto,
mirabilmente descritto da Honoré De Balzac. È il libro bianco di cui parla
Roberto Amato, il libro su cui vorremmo scrivere la nostra storia.
Anche l’Arte dunque, all’occhio dello spettatore, si
sbriciola. Eppure, nonostante tutto, si continua a scrivere.
La
poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma
scrivi.
Così anche noi, con l’amarezza di non poter cambiare,
ma con la consapevolezza di lottare. E quando verrà il momento, con la stessa
onestà intellettuale di uomini liberi, troveremo le parole giuste per dire, per
ascoltare e ascoltarci.
Nicolas Bouvier, il poeta, il grande viaggiatore che a
sette anni già si divorava tutta l’opera di Jules Verne, di R.I. Stevenson e di
Jack London, il poeta a cui piace e canta la lentezza, ci lascia alcune perle
di grande saggezza. La poesia che chiude la raccolta dell’unica opera
pubblicata si intitola Stagione morta,
è stata scritta il 25 ottobre 1997, qualche mese prima della sua morte, a Ginevra,
quando già gli era stato diagnosticato un cancro al polmone in fase avanzata.
Nell’ultima strofa, quasi a fior di labbra, ci parla del viaggio al quale si
preparava, con la lucidità del poeta che allontana da sé il dolore. Nulla si
può aggiungere, nulla c’è da spiegare. La poesia è soprattutto ascolto e
silenzio.
È ormai in un altrove diverso
che non svela il proprio nome
in altri soffi e altre pianure
che dovrai
più leggero di bolle di cardo
sparire in silenzio
ritrovando il vento delle strade.
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