Nel tuo commento si vede subito che il tuo io si sovrappone alla scrittura di Dante. È un gesto estremo e ostinato: è superbia?
Credo di no. È un gesto di poesia, se poesia deve essere. Se poesia deve essere, è l’effetto di una personalità, che asempra le parole, copia decide assembla e pubblica. In parte, sì: mi sono rappresentato con Dante. In parte. Ma Dante non è mio padre. Non lo è per nessuno di noi, vivi in un mondo postumo all’Apocalisse, dal punto di vista di Dante: l’anno del Signore MMXI è inconcepibile per chi sta aspettando «la consummazione del celeste movimento» all’inizio del Trecento. La sovrapposizione alla Comedìa dell’io del tempo postumo è un gesto di interpretazione: in senso musicale, anche. La Ciaccona di Bach-Busoni parla lingue diverse nelle mani di Benedetti Michelangeli e di Grimaud: nessuna è giusta e definitiva, ma entrambe sono personali. Gli artisti sono individui, con una singolarità potentissima. Il loro stesso suono è un individuo, con una singolarità potentissima.
Quindi non hai scritto un commento?
No. Ho scritto un’esposizione di fatti e storie, anche private. Io non posso spiegare Dante, per un motivo semplicissimo: io non sono Dante, e Dante si spiega solo con Dante. Voglio dire: la sua essenza e il suo progetto. Quanto ai dettagli – chi è Gentucca e chi è Matelda – siamo abbastanza liberi di spiegarli come vogliamo, senza dimenticare la cornice austera in cui è tutto inserito, fin dall’inizio. Allora ho cercato Dante nella sua singolarità. Per farlo, ho cercato – e trovato – una voce e uno spazio ubi consistam, perché la mia voce scritta è più efficace della mia voce improvvisata, che esita sempre. Volevo un altro suono, che sarà un suono alto, per un tempo vitale. In un certo senso: ho usato Dante [spudoratamente] come Dante ha usato me [giustamente].
Non ami l’idea di un Dante padre e compagno di strada. Perché?
Dante non è docile e non è sano. È un protoumanista ferreo, all’interno di una mente orientata all’unicità: un solo Dio, un solo progetto, un solo poeta cristiano e un solo poema sacro. Dante è aspro e nervoso, e l’esilio spezza anche l’abitudine al sapore del pane: cioè spezza le cose più ovvie. L’amicizia gli appartiene più per necessità – la cooptazione poetica e la sopravvivenza dopo l’esilio – che per adesione del cuore. È un sessuomane, probabilmente. Da buon sessuomane, è sessuofobo, nello stesso tempo: ha nel suo corpo e nel suo istinto la tendenza alla perversione e alla santità. Quindi deve aver pensato: peccare è peccare contro la vocazione e l’elezione, cioè contro la singolarità speciale. L’elezione rischia di decadere nell’ambiguità: questo non è possibile, pena la dissociazione dalla grandezza, che si ha – e si è – per nascita (parlo dal punto di vista di Dante). Non è il solo: gli spiriti magni dell’Italia letteraria sono spiritati, da sempre. L’origine o Mecenate – di volta in volta borghese, altoborghese, nobiliare, statale – li protegge un po’, ma questa aiuola è inquieta da secoli. L’infezione della mente e il marchio sessuale – o eccesso di pratica o difetto di pratica – sono caratteristici, qui. La lingua che parliamo è canterina e mobile: lo dice e non lo dice.
A volte, sembra che l’italiano non ti si addica o che sia solo una lingua scritta, per te. Anche nella tua voce appare questa mancanza di patria: a volte, hai l’accento di chi vive qui da decenni, ma non è italiano. In certi tuoi audio si sente, e fa impressione.
La dolcezza dei nostri suoni occulta il caos. L’andante o l’adagio dei nostri ritmi occulta la depressione o l’eccitazione. Luigi Di Ruscio ha urlato bene: la lingua italiana è merdosa. Come non posso riconoscermi in una dolcezza, se è maschera, ora non posso più riconoscermi nel corpo che ero, nella voce che avevo, e nelle esitazioni pratiche che ho avuto. Posso essere stato senza linfa. La linfa è come il lingam, il vivo è fecondo e il morto è asessuato e sterile. L’allure della voce mi sfugge, è una specie di conquista: come è, è; è il frutto di una difficoltà superata come potevo: quindi a fatica, sempre. E Dante: in fondo Dante è nato piccolo, abbastanza ricco da proteggersi dal lavoro, in una periferia del mondo neolatino. Lì è nato, piccolo e ricco, e soprattutto dopo la cacciata si vuole eccellente, mondiale, estraneo, sovrumano, profetico. Un geniale romanziere e un profeta ispirato: una contraddizione che può intimorire, perché è pura intensità, che lo difende da tutto. Se inventa troppo, è giustificato: che altro deve fare un romanziere, in ogni tempo? Se il romanzo profetizza e giudica troppo, è giustificato: non è forse un poema sacro? Quindi Dante cade sempre in piedi.
Dove va Dante? O meglio: dove non va?
Dante è un veleno che circola da centinaia di anni, all’interno delle nostre facilità. Non è come noi e ce lo ricorda sempre. La selva oscura siamo noi, e Dante vi è rimasto finché si è lasciato decadere dalla vocazione dei Gemelli eletti, finché si è arrangiato come gli altri, bene o male. A quel punto, c’è lo scatto. La salvezza è vicina, arriva e si vede, ma non è una salvezza comune: Maria santissima, Beatrice beata, Lucia santa, Virgilio classicissimo, profeta e poeta. Avvicinarsi a questa consapevolezza spudorata richiede un io e un corpo. E io, il corpo, sono un debole che non vuole più esserlo. Dante sprona e punge, continuamente. In quanto a lui, va solo verso se stesso, perché in fondo la retta via coincide con l’io. Da uomo è peccatore, da artista – esecutore della vocazione e dell’elezione – è impeccabile come un nagual. È chiaro: un uomo adulto non dovrebbe fare altro, perché sa di morire. Così cerco di fare io stesso: quindi devo riprendere in mano molte cose – nel mio caso: molti testi – e restituirle alla vita nuova [e con le cose e i testi, anche la mia vita, già superata dall’io, che fa, rifà e corre].
E tu dove stai andando?
Verso un modo sano di guardare all’immateriale. Devo ripartire da chi sono: corpo e voce. La musica è una grande medicina e un grande riparo: è il giusto compromesso tra materiale e immateriale. Dalla musica alla religione il passo è corto. Anche il Santo Benedetto ha le narici, per annusare le cose buone, e la schiena come unica parte da mostrare a Mosé. E nello stesso tempo il Santo è spirito.
[Genova, 30-31 luglio 2011: intervista epistolare]
Credo di no. È un gesto di poesia, se poesia deve essere. Se poesia deve essere, è l’effetto di una personalità, che asempra le parole, copia decide assembla e pubblica. In parte, sì: mi sono rappresentato con Dante. In parte. Ma Dante non è mio padre. Non lo è per nessuno di noi, vivi in un mondo postumo all’Apocalisse, dal punto di vista di Dante: l’anno del Signore MMXI è inconcepibile per chi sta aspettando «la consummazione del celeste movimento» all’inizio del Trecento. La sovrapposizione alla Comedìa dell’io del tempo postumo è un gesto di interpretazione: in senso musicale, anche. La Ciaccona di Bach-Busoni parla lingue diverse nelle mani di Benedetti Michelangeli e di Grimaud: nessuna è giusta e definitiva, ma entrambe sono personali. Gli artisti sono individui, con una singolarità potentissima. Il loro stesso suono è un individuo, con una singolarità potentissima.
Quindi non hai scritto un commento?
No. Ho scritto un’esposizione di fatti e storie, anche private. Io non posso spiegare Dante, per un motivo semplicissimo: io non sono Dante, e Dante si spiega solo con Dante. Voglio dire: la sua essenza e il suo progetto. Quanto ai dettagli – chi è Gentucca e chi è Matelda – siamo abbastanza liberi di spiegarli come vogliamo, senza dimenticare la cornice austera in cui è tutto inserito, fin dall’inizio. Allora ho cercato Dante nella sua singolarità. Per farlo, ho cercato – e trovato – una voce e uno spazio ubi consistam, perché la mia voce scritta è più efficace della mia voce improvvisata, che esita sempre. Volevo un altro suono, che sarà un suono alto, per un tempo vitale. In un certo senso: ho usato Dante [spudoratamente] come Dante ha usato me [giustamente].
Non ami l’idea di un Dante padre e compagno di strada. Perché?
Dante non è docile e non è sano. È un protoumanista ferreo, all’interno di una mente orientata all’unicità: un solo Dio, un solo progetto, un solo poeta cristiano e un solo poema sacro. Dante è aspro e nervoso, e l’esilio spezza anche l’abitudine al sapore del pane: cioè spezza le cose più ovvie. L’amicizia gli appartiene più per necessità – la cooptazione poetica e la sopravvivenza dopo l’esilio – che per adesione del cuore. È un sessuomane, probabilmente. Da buon sessuomane, è sessuofobo, nello stesso tempo: ha nel suo corpo e nel suo istinto la tendenza alla perversione e alla santità. Quindi deve aver pensato: peccare è peccare contro la vocazione e l’elezione, cioè contro la singolarità speciale. L’elezione rischia di decadere nell’ambiguità: questo non è possibile, pena la dissociazione dalla grandezza, che si ha – e si è – per nascita (parlo dal punto di vista di Dante). Non è il solo: gli spiriti magni dell’Italia letteraria sono spiritati, da sempre. L’origine o Mecenate – di volta in volta borghese, altoborghese, nobiliare, statale – li protegge un po’, ma questa aiuola è inquieta da secoli. L’infezione della mente e il marchio sessuale – o eccesso di pratica o difetto di pratica – sono caratteristici, qui. La lingua che parliamo è canterina e mobile: lo dice e non lo dice.
A volte, sembra che l’italiano non ti si addica o che sia solo una lingua scritta, per te. Anche nella tua voce appare questa mancanza di patria: a volte, hai l’accento di chi vive qui da decenni, ma non è italiano. In certi tuoi audio si sente, e fa impressione.
La dolcezza dei nostri suoni occulta il caos. L’andante o l’adagio dei nostri ritmi occulta la depressione o l’eccitazione. Luigi Di Ruscio ha urlato bene: la lingua italiana è merdosa. Come non posso riconoscermi in una dolcezza, se è maschera, ora non posso più riconoscermi nel corpo che ero, nella voce che avevo, e nelle esitazioni pratiche che ho avuto. Posso essere stato senza linfa. La linfa è come il lingam, il vivo è fecondo e il morto è asessuato e sterile. L’allure della voce mi sfugge, è una specie di conquista: come è, è; è il frutto di una difficoltà superata come potevo: quindi a fatica, sempre. E Dante: in fondo Dante è nato piccolo, abbastanza ricco da proteggersi dal lavoro, in una periferia del mondo neolatino. Lì è nato, piccolo e ricco, e soprattutto dopo la cacciata si vuole eccellente, mondiale, estraneo, sovrumano, profetico. Un geniale romanziere e un profeta ispirato: una contraddizione che può intimorire, perché è pura intensità, che lo difende da tutto. Se inventa troppo, è giustificato: che altro deve fare un romanziere, in ogni tempo? Se il romanzo profetizza e giudica troppo, è giustificato: non è forse un poema sacro? Quindi Dante cade sempre in piedi.
Dove va Dante? O meglio: dove non va?
Dante è un veleno che circola da centinaia di anni, all’interno delle nostre facilità. Non è come noi e ce lo ricorda sempre. La selva oscura siamo noi, e Dante vi è rimasto finché si è lasciato decadere dalla vocazione dei Gemelli eletti, finché si è arrangiato come gli altri, bene o male. A quel punto, c’è lo scatto. La salvezza è vicina, arriva e si vede, ma non è una salvezza comune: Maria santissima, Beatrice beata, Lucia santa, Virgilio classicissimo, profeta e poeta. Avvicinarsi a questa consapevolezza spudorata richiede un io e un corpo. E io, il corpo, sono un debole che non vuole più esserlo. Dante sprona e punge, continuamente. In quanto a lui, va solo verso se stesso, perché in fondo la retta via coincide con l’io. Da uomo è peccatore, da artista – esecutore della vocazione e dell’elezione – è impeccabile come un nagual. È chiaro: un uomo adulto non dovrebbe fare altro, perché sa di morire. Così cerco di fare io stesso: quindi devo riprendere in mano molte cose – nel mio caso: molti testi – e restituirle alla vita nuova [e con le cose e i testi, anche la mia vita, già superata dall’io, che fa, rifà e corre].
E tu dove stai andando?
Verso un modo sano di guardare all’immateriale. Devo ripartire da chi sono: corpo e voce. La musica è una grande medicina e un grande riparo: è il giusto compromesso tra materiale e immateriale. Dalla musica alla religione il passo è corto. Anche il Santo Benedetto ha le narici, per annusare le cose buone, e la schiena come unica parte da mostrare a Mosé. E nello stesso tempo il Santo è spirito.
[Genova, 30-31 luglio 2011: intervista epistolare]
1 commento:
Elisa Valeria Nissim ha ideato la scansione d'un dialogo che nelle parole di Massimo Sannelli diventa fertilissimo, e straordinario, nonostante - immagino - l'anelito profondo di Massimo sia quello di raggiungere la più semplice ordinarietà. E prima o poi dovrò prendere in mano le pagine (di carta, finora ho letto di suo solo in digitale) di Luigi Di Ruscio.
Complimenti sinceri a E.V. Nissim e Massimo.
Abbracci,
Subhaga Gaetano Failla
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