venerdì 27 maggio 2011

Lo spazio di Andrea Garbin: appunti critici su Una litania per gli assenti

di Sebastiano Adernò

Ho conosciuto Andrea Garbin condividendo con lui delle parche cene in un monastero di Frati camaldolesi. Ed è stato allora che mi ha parlato dei suoi viaggi in Patagonia, e nei Paesi Scandinavi. In luoghi, dove soprattutto, ancora oggi, regna e resiste lo spazio. In virtù di ciò intendo rileggere la sua poesia Una litania per gli assenti, che apre la raccolta Lattice edita da Fara Editore.
Già nel titolo, dal sapore programmatico, si esprime l'intenzione di rivolgersi agli assenti. E gli assenti sono ciò che manca, manca in maniera figurativa dinanzi alla nostra vista. Sono un vuoto che non ci riesce di colmare. Un vuoto che ha generato il nostro desiderio di riempirlo. Ed ecco “il deposito dei morti tra le falangi del bacino lacustre”. Un'immagine tetra, di spazio compresso, soffocato tra l'aria malsana della palude. Così come le “campane circoncise” il cui suono né si ode, né si proietta ed espande nello spazio. Ma forse il male non sono le campane, ad essere circonciso è invece lo spazio che nulla accoglie, e  non consente un oltre. Si dimostra inadeguato.
Seguono infatti questi versi: “cerchiamo un mondo / primordiale e tra il vento fino / s’apre il fiato sul nostro camminare”. Ecco palesarsi il desiderio di un mondo nuovo, diverso. Uno spazio che ci permetta nuove indagini, e di edificare in maniera differente. Ecco il bisogno di andare, camminare, adagiare il proprio cuore tra i vitigni, farlo spiovere dalla chioma dei cipressi, che sembrano crepe nella notte.
“Cadono parole tra le foglie / come nubi in piazzali fruttuosi […] Quando tace la città / tacciono anche gli orizzonti”. Piazzali, città, orizzonti. Il lessico usato in queste immagini conferma questa esigenza di rapportarsi con lo spazio. E si arriva ad un passaggio importante, forse la chiave di volta di questa poesia: “la mutevolezza di questo viaggio […] dove l’acqua esamina la terra / si fa soglia di pensieri e sborda / s’infrange sul riflesso dei monti […] cacciatore d’antiche assenze / là dove s’infrange l’esistenza […] come di stelle
che non sanno”. Qui è svelato il viaggio, nella ricerca di qualcosa di mutevole, che cambiando continuamente forma ed aspetto non si lascia cogliere. Un viaggio dove occorre fare silenzio per afferrare i significati delle cose. Quei significati primordiali, soffocati dalla
coltre della troppa distrazione. Quelle cose essenziali, come i dubbi e le domande contro cui s'infrange l'esistenza. E che anche l'acqua esamina, facendosi soglia, ingresso di qualcosa che non si può trattenere. Perché i nostri argini, quelle difese razionali con cui siamo soliti addomesticare ed incasellare ciò che ci accade, si possono dimostrare fragili ed inadatti di fronte agli immensi silenzi di un deserto, o al terribile vuoto che ci procura una domanda
sull'aldilà. E dunque l'acqua sborda, si infrange sui piedi dei monti, che sono gli antichi testimoni e depositari di quella immutata conoscenza del nostro Mondo. I guardiani dello spazio degli assenti.
Il rifugio di Garbin.
                        

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